Intercettazioni-trattativa Stato-mafia: se la prendono con Di Matteo e Messineo

“Ascolta: una volta un giudice come me giudicò chi gli aveva dettato la legge: prima cambiarono il giudice e, subito dopo, la legge, Oggi, un giudice come me lo chiede al potere se può giudicare. Tu sei il potere. Vuoi essere giudicato? Vuoi essere assolto o condannato?”.

Questo è il finale di una celebre canzone di Fabrizio De Andrè: “Sogno numero due”, tratto da “Storia di un impiegato”.

Traslando il senso di questa canzone alla trattativa tra Stato e mafia la storia diventa interessante. Di scena le ormai celebri telefonate tra il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, e l’ex Ministro degli Interni, Nicola Mancino. Telefonate intercettate dalla magistratura. Per questa vicenda sono finiti nei ‘casini’ il pm presso la Procura della Repubblica di Palermo, Nino Di Matteo, e lo stesso procuratore della Repubblica di Palermo, Francesco Messineo. (a sinistra, foto tratta da alternativa-politica.it)

L’azione disciplinare contro i due magistrati è stata promossa dal Procuratore generale della Cassazione. A Di Matteo si contesta di avere “ammesso l’esistenza delle telefonate tra l’ex Ministro dell’Interno e il capo dello Stato”. Al procuratore capo Messineo si contesta di non avere segnalato le violazioni commesse dal magistrato del suo ufficio ai titolari dell’azione disciplinare.

A Di Matteo, tra i magistrati titolari dell’inchiesta sulla trattativa tra Stato e mafia, viene contestato di “avere mancato ai doveri di diligenza e riserbo”. Questo sarebbe avvenuto nel giugno dello scorso anno, quando il pubblico ministero, nel corso di un’intervista, ha ammesso “seppure non espressamente, l’esistenza delle telefonate tra Mancino e Napolitano”.

In pratica, il pubblico ministero, Nino Di Matteo, secondo il Pg della Cassazione, avrebbe “indebitamente leso il diritto di riservatezza del capo dello Stato”. Diritto di riservatezza del capo dello Stato che è stato riconosciuto dalla sentenza della Corte Costituzionale che ha accolto il ricorso della Presidenza della Repubblica sul conflitto di attribuzione con la Procura di Palermo.

La storia delle intercettazioni tra Napolitano e Mancino va avanti ormai da oltre un anno. Per la cronaca, le telefonate tra il capo dello Stato e l’ex Ministro risalgono alla fine 2011. I giornali ne cominciano a parlare nel giugno del 2012.

Va sottolineato che l’utenza messa sotto controllo dagli inquirenti era quella di Mancino, che in quella fase era già indagato. Oggi, sempre per la cronaca, l’ex Ministro è imputato di falsa testimonianza al processo per la trattativa tra Stato e mafia. Secondo i pubblici ministeri, Mancino, nominato Ministro degli Interni nei primi giorni di luglio del 1992, era a conoscenza della trattativa tra lo Stato e Cosa nostra. L’ex Ministro, sempre secondo i magistrati, avrebbe mentito sui rapporti tra ‘pezzi’ dello Stato e mafiosi. Rapporti riconducibili ai primi anni ’90.

L’ex Ministro, non esattamente ‘felice’ per l’inchiesta che allora lo vedeva indagato, telefonava a destra e a manca. Tra queste telefonate, ci sono anche quelle al Quirinale e, precisamente, allo stesso Presidente Napolitano.

Da quello che possiamo capire da giornalisti, il potere, in Italia, non vorrebbe essere processato. Ma questa volta non sarà così. Ferma restando la presunzione di innocenza, il processo ai politici, questa volta, si farà.

Il problema è che un’azione disciplinare sta colpendo i magistrati che hanno indagato su questa incredibile vicenda: e la cosa, a noi, sembra un po’ kafkiana (e, volendo, anche un po’ italiana, senza offesa per Kafka). Forse perché, a differenza della canzone di De Andrè, i pm non hanno posto al potere le due domande? Ovvero: “Vuoi essere giudicato? Vuoi essere assolto o condannato?”. E lo Stato che fa?, ci chiediamo noi ripensando a un’altra celebre canzone del grande De Andrè, “Don Raffaè”.

“Si costerna, s’indigna, s’impegna, poi getta la spugna con gran dignità…”.

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