"utopia non è ciò che non
In Sicilia, nella Fiumara d’Arte, l’incontro tra Antonio Presti e l’ex capo delle Br, Renato Curcio
“Utopia non è ciò che non
si può realizzare ma
ciò che il sistema non
vuole che si realizzi”
Antonio Presti
QUI, INSIEME CON UN ARTISTA, L’EX TERRORISTA CHE NEGLI ANNI ’70 DEL SECOLO PASSATO FACEVA TREMARE I POTENTI DELL’ITALIA DI ALLORA, HA REALIZZATO UNA STANZA DELL’ALBERGO PIU’ PARTICOLARE DEL MONDO. “SOGNI TRA I SEGNI”, QUESTO IL SUO NOME
di Cettina Vivirito
Arriva a Trento nel 1962, con 50 mila lire in tasca. A Genova, un geometra dellItalsider gli aveva detto: “Tu sei un tipo con strani interessi, a Trento aprono ununiversità che fa al caso tuo”. Vince una borsa di studio, e intanto lavora come cameriere, diventa il segretario del vice sindaco Dc di Trento. Vive in estrema povertà prima nel convitto di villa Tambosi poi si trasferisce in una comune, insieme a Mauro Rostagno e Paolo Palmieri. Lascia Trento nellestate del 1969 per trasferirsi a Milano, dove fonderà le Brigate Rosse di cui diverrà il capo.
Nato dai sogni ribelli del 1968, Renato Curcio compie un percorso all’interno del movimento studentesco di Trento dove aveva frequentato la facoltà di Sociologia. “La nostra violenza veniva dalla storia del Novecento”, scriverà sul diario, “avevamo alle spalle gli anni Sessanta, ma anche le vicende della Resistenza e della guerra. Da ragazzini andavamo a sentire le storie che raccontavano i partigiani. Noi siamo cresciuti così. Alla fine degli anni Ottanta io e i miei compagni in carcere abbiamo deciso di sciogliere il patto che ci legava. Quell’Italia non cè più. Io oggi sono un editore. Nel mio futuro vedo un impegno di ricerca, di lavoro e di solidarietà con le persone che vivono dentro questa società insieme a me, avventura umana difficile e complicata”.
Uomo mai veramente sconfitto, ha pagato il suo debito con la giustizia con 18 anni ininterrotti di carcere, rinunciando ai giorni di permesso e ad ogni difesa legale.
Nell’ormai lontano 1990 scriveva in antiporta al suo primo, significativo libro:
“LA PORTA. Dove ci si chiede: come aveva fatto a non morire dopo il primo giorno? Da dove sgorga l’energia per sopravvivere e vivere nonostante l’istituzionalizzazione”.
Il libro s’intitola: “Nel bosco di bistorco” e così continua nel risvolto di copertina: “(…) L’attraversamento del bosco per noi non è ancora finito. E, in un certo senso, non sarà mai finito. Così pure anche tu, a tuo modo, stai calpestando qualche sentiero dello stesso bosco. L’esperienza della reclusione non inizia nè finisce sulla soglia di un carcere, di un manicomio, o di una qualche altra istituzione totale: c’è una reclusione meno evidente, più sottile, quella che lega bambini, donne e uomini di ogni razza e di ogni età e condizione sociale a quei giochi della vita quotidiana che, contro la loro stessa volontà ed il loro stesso desiderio, per qualche imprescindibile ragione, essi sono costretti a giocare”. “(…) c’è quel dovere stare al gioco che rende per ciò stesso, assai spesso il gioco della vita penosamente impossibile”.
In quasi venticinque anni che ci separano da quel libro, nelle nostre città subissate dal sovraccarico delle omologazioni non è diminuita la difficoltà antropologica diffusa che mette tutti di fronte al dilemma: soccombere o accettare la sfida? La sfida dell’irritazione, della divergenza, del mutamento. In un gioco di luci ed ombre esattamente come in un bosco, nascono mappe e sentieri; il fervore della scrittura, i sogni della notte e quelli ad occhi aperti, un odore o un sapore, una carezza o semplicemente la forza di vivere cavalcano, nonostante tutto, gli ampi territori degli stati umani modificati dalle istituzioni; mentre stiamo lì dove ci hanno rinchiusi siamo anche altrove, dove il cuore ci porta. E se alcuni si rifugiano nella “tana del pianto” dove ci si rende conto che non si può chiedere accoglimento per il proprio ineffabile dolore a un carceriere, altri trasformano la propria solitudine in una mandria di bisonti che sta per investirci con il carico delle straordinarie risorse cui sono ricorsi per sconfiggere lo stesso carceriere. Risorse che per Renato Curcio consistono in due fondamentali momenti: quello della narrazione, quello dell’analisi.
Da molti anni diventato editore di “Sensibili alle foglie” (fuori dalla grande distribuzione) nata nel carcere di Rebibbia, la casa editrice si è specializzata nella ricerca sociale e, sul proprio sito si autodefinisce “cooperativa di lavoro”, ma anche “un modo di guardare, un modo di cercare, di porre domande sui vissuti delle esperienze estreme, sui dispositivi totalizzanti che sono allopera nei gruppi, nelle associazioni e nelle istituzioni”.
Si occupa dunque di istituzioni totali, di socioanalisi, offrendo uno spaccato della realtà che non traspare dalla pubblicistica ufficiale, lasciando parlare le vittime del nuovo capitalismo, mettendo in luce lo sfruttamento a cui sono soggette fasce di popolazione colpite dalla crisi e dalla progressiva negazione di diritti e tutele.
Nel suo nuovo libro, Il Pane e la morte ,scritto in collaborazione con una trentina di persone, tra lavoratori e familiari di operai del Petrolchimico, medici epidemiologi, cittadini impegnati in comitati per la difesa dellambiente, le narrazioni raccolte in quello che Curcio definisce un “cantiere”, hanno fatto emergere la stretta connessione tra la produzione e la disseminazione di veleni del popolo industriale, le Centrali termoelettriche, il Petrolchimico e laumento della mortalità e delle malattie fra i lavoratori e gli abitanti dei quartieri prossimi agli stabilimenti.
Curcio si interroga e fa interrogare i lettori sui dispositivi che hanno reso impossibile, in questi ultimi cinquant’anni, determinare delle responsabilità e porre dei rimedi alla situazione. Il libro illustra attraverso il racconto delle persone direttamente coinvolte, tali dispositivi e li inquadra in quella complicità istituzionale che a Brindisi come in diverse altra parti dItalia e del mondo, opera privilegiando il profitto a discapito della salute, indipendentemente da ideologie personali e politiche.
L’esempio principe il quartiere Tamburi nella città di Taranto confinante con lo stabilimento Ilva-Italsider, al centro oggi di uninchiesta sulla mortale nocività e pericolosità della sua attività produttiva, spesso coperta da complicità istituzionali (Asl, direzioni e perizie sanitarie, importanti centri di ricerca ospedalieri, ecc.). Una ricerca che dura da almeno un quindicennio iniziata con il primo cantiere i cui risultati confluirono nel primo libro, “LAzienda totale” (2002), proseguita con “Mal di lavoro” e conclusa (per modo di dire) con l’ultimo, appunto “Il pane e la morte”.
Aspetto centrale sul quale Curcio insiste è il “silenzio” da parte dei diretti interessati che accompagna lintera vicenda, sulle cui dinamiche sociali si basa parte della narrazione: “(…) la sofferenza non è il tumore, ma il silenzio”. I lavoratori si ammalano e nascondono il male, come se se ne vergognassero. Solo dopo, quando levoluzione della malattia “incontra” la morte, si fanno le denunce e partono i processi contro i responsabili.
“La narrazione deve avvenire da parte di chi questa realtà la esperisce nel quotidiano e se ne ammala”, sostiene Curcio; agli altri spetta il compito di renderla accessibile e consapevole per realizzare un’intervento, limitarne i danni e possibilmente abolirne le pratiche.
Se la parola “lavoro” la consideriamo una parola definita dai media, dai sindacalisti, dai politici, scrive Curcio, diventa una parola combinata sistematicamente ad altre parole, prima fra tutte “flessibilità” seguita da “superfluità”, “incertezza”, “rischio” – concetti elaborati da grandi accademici (Sennett, Baumann, Castel) – e utilizzati per informare, plasmare; se rovesciamo il locutore e scendiamo nella nostra vita quotidiana queste parole assumono altri significati: diventano ansia, paura. L’incertezza del lavoro, la flessibilità, il rischio diventano uno stato di definizione molto incerta della propria collocazione nel mondo.
E’ un rovesciamento di sguardo: per il lavoratore flessibilità significa che questa sera va a dormire che ha il lavoro, domani non lo sa; e questo in termini di condizione esistenziale. Le parole assumono sfumature di significati che si determinano momento per momento, ma anche gruppo sociale per gruppo sociale: la fonte del sapere pastorale sono i pastori non gli accademici e gli agrari; quello del pastore è l’importante sguardo di chi usa parole con cui traduce la sua esperienza.
E’ il caso della parola “precarietà”, milioni di volte ripetuta che non significa più nulla, parla di un’epoca che non c’è proprio più: quale precarietà quando i lavoratori di un contesto significativo sono tutti precari? Nella più grande azienda del mondo, la Walmart, con più di 1.400.000 lavoratori (più della General Moto, più di Microsoft più di Apple) che significato attribuire alla parola precarietà se non c’è un solo lavoratore che non sia precario, un dirigente che sia a tempo indeterminato?
Per il capitalismo in questa fase è del tutto insensato. Dai tempi della genesi e per i successivi millecinquecento anni “lavoro” ha significato fondamentalmente: “tu hai trasgredito, d’ora in avanti ti guadagnerai il pane con il sudore della tua fronte”, costituendo un controllo sociale estremamente forte.
Tuttavia con la nascita del capitalismo mercantile questa idea è diventata molto imbarazzante tanto da far nascere all’interno della stessa chiesa una rivolta protestante. Calvino si è scagliato contro questa idea: “Perché mai dobbiamo pensare il lavoro come una pena?”, può essere pensato come merito: se più lavoro più guadagno crediti, per il mio futuro sarò indotto ad andare a lavorare con uno spirito felice; anche il mio dio ne sarà felicissimo. La rivoluzione calvinista è stata studiata poi anche in quanto fenomeno economico (“L’etica protestante e lo spirito del capitalismo” di M. Weber), e da Calvino in poi abbiamo attraversato altre sofisticate soglie intermedie fino a Ramazzini, il primo medico che ha impostato in maniera laica l’analisi. Recandosi presso i battitori di grano trovò che vi erano molte polveri e parlando con i cittadini in quanto medico trovò che avevano molte malattie polmonari dovute decisamente a quelle polveri. Osservando i lavoratori delle latrine trovò che avevano delle infezioni; trovò quindi il nesso tra il lavoro e la salute, e che questo nesso sia il “senso del lavoro”.
Era il lontano ‘600, ma il suo nome e la sua metodologia diedero origine alla medicina del lavoro. Soltanto alle soglie dell’Ottocento il discorso è diventato più politico; nacquero movimenti vari tra cui quello degli anarchici che sono stati estremamente importanti soprattutto dove identificati nella figura di Proudhon, il quale sostenne che il lavoro definisce il progresso sociale da un lato e la dignità della persona dall’altro; la nascente società industriale fece sua questa definizione che avrebbe dovuto basarsi quindi sul riscatto delle persone che conquistando la dignità si inserivano all’interno di questo progresso, discorso tirato fino ai nostri giorni ma, ci possiamo chiedere, dov’è questo lavoro che significa dignità e progresso? Se usciamo dal gioco illusionista delle parole cosa possiamo farne dei significati?
All’inizio del ‘900 Taylor disse invece non prendiamoci in giro, capitalismo o non capitalismo la cosa importante è il modo di produzione scientifico; di contro alla religione sostenne che deve esistere un unico metodo scientifico per la produzione, dalle automobili alle palle da baseball.
Niente meglio del film “Tempi moderni” di C. Chaplin ci fa vedere cos’è la macchina taylorista, e cosa intendeva per “scientifico”: siamo nel 1936, epoca in cui è iniziato quel processo di trasferimento delle fabbriche dentro i campi di concentramento che durerà fino al ’45: in Germania tutte le grandi imprese lo fecero per avere un costo del lavoro bassissimo (solo il trasporto e poi lavoravano gratis). Nei campi di concentramento fu visibile il punto limite di un discorso teorico nel senso razionale del termine che ha significato fare lavorare al minor costo possibile per realizzare la massima intensità produttiva e la massima valorizzazione del capitale.
Per inciso, anche gli americani trasferirono le loro fabbriche (la Ford in primis) nei campi di concentramento, pur sostenendo la resistenza italiana; e urge ricordare che Hitler prese un premio per gli industriali (l’Aquila d’Oro).
Dopodiché avviene un passaggio radicale tra un modo di produzione capitalistico classico – denaro merce – denaro, dove una cifra “cento” deve diventare una cifra “centouno”, al modello – denaro denaro, che è il discorso degli usurai storici, delle banche e le loro transazioni (replicato all’infinito quando prendiamo dei mobili a rate, i libri di scuola per i figli a rate e così via).
Questo secondo modello di “accumulazione finanziaria” ha sussunto una connotazione industriale; ha cominciato a far funzionare la sua accumulazione acquisendo interi gruppi, pacchetti industriali che compra e vende nel mercato industriale in base al principio più uno meno uno; ormai ci sono dei computer che in tempo reale gestiscono i pacchetti delle borse e pacchetti azionari di questi gruppi; così alla Borsa di Tokyo e così in tutto il capitalismo finanziario basato sul principio maggiormente disumanizzante; programmando un sistema di computer per monitorare la Borsa, per comprare e vendere titoli, gli uomini le donne i bambini spariscono per sempre, rimane solo la chiusura della Borsa a fine giornata.
In questo quadro, dipinto in modo eccellente da Di Caprio nel recente film A wolf of Wall Street, ci troviamo di fronte ai paradossi del lavoro, oggi, che molti hanno vissuto sulla propria pelle, che hanno lavorato in aziende (redditizie e produttive) che a un certo punto chiudono. Spesso non si tratta di delocalizzazione del gruppo ma di ragioni più banali e stupide, per esempio una banca giapponese ha comprato il “pacchetto” e siccome lo ha inserito in un contesto di valorizzazione dove quel settore è irrilevante lo ha dismesso, non fa soldi per il suo gruppo.
Assistiamo a degli sconvolgimenti del mercato finanziario che si ripercuotono sul mercato del lavoro che diventa un territorio di guerra, con una conflittualità permanente (per questa ragione si stanno scannando sull'”art. 18″).
Flessibilità allora significa mettere le persone in condizioni insignificanti, irrilevanti. Se entriamo nel cuore un call center, un’azienda informatica o anche sociale, il dispositivo è sempre quello, il principio scientifico tayloriano è matematico, è quello dei computer, si fanno funzionare tutti gli algoritmi matematici del mondo da fb a twitter a google, alla compravendita su internet. Questa cellula originaria dice che la valorizzazione del lavoro passa attraverso la variabile umana che ancora non sono riusciti a eliminare: alla più grande fabbrica di assemblaggio del mondo, la “Fox” (con il più alto numero di suicidi all’interno della fabbrica) hanno dichiarato che il lavoro umano è ancora purtroppo necessario, ma contano tra una ventina d’anni al massimo di sostituirlo coi robot, più affidabili e molto meno costosi.
“Questi vent’anni li abbiamo ancora di fronte”, ci ricorda Renato Curcio, e “c’è quindi un passaggio storico che significa che avremo ancora uomini e donne che ogni mattina vanno al lavoro”, ma dentro un doppio dispositivo di spremitura; nel mondo capitalistico era il sistema di comando: c’erano i capi del personale, i capi squadra, il capo del gruppo di lavoro ecc. Oggi questo non esiste; esiste invece all’Ikea come in altrettante aziende l’uso di badge che registrano durante il tempo di lavoro tutto quello che dice l’operaio e lo trasmette alla centrale in tempo reale. Il lavoratore è incardinato da strumenti tecnologici ma, soprattutto, da strumenti psicologici, legati alla competitività. Il modello di Amazon è il più avanzato del mondo in questo senso: regola il tempo che deve intercorrere tra un ordinativo e la sua spedizione, che non deve essere superiore a venti minuti; pause fisiologiche regolate di due minuti e trenta secondi. Se si sottraggono anche solo due secondi l’azienda che al mondo vende più di tutti (tutti i giorni sette miliardi di consumatori nei suoi negozi) offrendo dei servizi a basso costo, con quei due secondi è impedita a realizzare il profitto e considera quei due secondi “rubati” (che moltiplicati poi per un milione e quattrocentomila lavoratori si tradurrebbe in un incalcolabile danno economico): il lavoratore diventa penalmente responsabile.
La frustrante competizione a sua volta si sviluppa su tre piani: con se stessi, con i colleghi di lavoro, con le macchine. Non tutti sanno che in ogni Call Center funziona allo stesso modo, le persone vengono divise in gruppi di squadre in modo da svolgere dei campionati calcolando la produttività dei lavoratori in tempo reale, secondo per secondo, automatizzando i passaggi, e al mattino si apre con la classifica su un bel tabellone con slides: Giovanna 122, Filippo 112, AnnaMaria 107 – Il primo si prende gli applausi ma l’ultimo?
Trattandosi di un campionato, l’ultimo sta facendo perdere le partite alla squadra, perché dovrebbe rimanere? Intanto si stabilisce una regola: quel giorno l’ultimo non prende soldi, che vanno al primo che ha tirato la squadra in alto; “tre volte sei fuori” è ormai un mito di terrore che vige nei sistemi aziendali, tre volte che si accende la lucina della produttività minima stabilita per la tua operazione sei completamente fuori. Una competizione cannibalica dove sono gli stessi lavoratori a sbarazzarsi di colleghi che non producono, ottenendo peraltro una disseminazione di privilegi.
Un sistema la cui realizzazione è legata a un’idea che noi conosciamo dal lato del consumatore, la “fidelizzazione”: il nodo è passare alla fidelizzazione paradossale di un lavoratore che non è più un lavoratore a tempo indeterminato; bisogna metterlo in una condizione di squilibrio permanente, di ricattabilità e contemporaneamente fidelizzarlo all’azienda perché possa dare il massimo per scelta volontaria.
Una delle cose più orrende che può capitare di vedere è il balletto degli operai di Pomigliano, flash mobb fatto in azienda per promuovere la nuova Jeep: in americano cantano un ritornello in cui dicono “noi amiamo lavorare per la Fiat”; Auchan, Ikea, Apple, fanno la stessa cosa, e ci troviamo in un attimo “dentro” il flash mobb: il lavoratore è così felice di lavorare per una fabbrica che ha il record di suicidi e che è la prima fabbrica che in Italia ha portato la sospensione del diritto come tecnica di gestione, come rottura storica delle culture; gli operai ci dicono “Io sono il promoter di questa fabbrica io sono così fidelizzato che la tiro la trascino la promuovo ballo mi sballo di gioia per dirvi questo”.
Questa fidelizzazione molto ipocrita però è oggi la tecnica con cui quei lavoratori sono costretti a lavorare per continuare a lavorare. Pomigliano è il più triste esempio che ci consente di entrare in una implicazione gigantesca del discorso, il rapporto tra il diritto per il lavoro (ottenere il sindacato in fabbrica ha avuto costi enormi per i lavoratori) e la cultura del legame, per fare un fronte comune, idea smontata dal capitalismo finanziario che ha individualizzato il calcolo della produttività e costruisce per la stessa mansione per dieci lavoratori dieci contratti diversi la cui forza sta nei rapporti verticali in funzione di continue valutazioni.
E’ un processo che abbiamo visto in Europa in termini politici: in quel contesto la sospenzione del diritto avveniva nel senso che un gruppo di governo diventato molto forte sospendeva un certo tipo di leggi. Un sistema di forze.
“La sospensione in Italia è superpraticata”, e Curcio ne sa qualcosa: in carcere c’è il 41bis, regolamento che sottrae 700 detenuti alla gestione carceraria e che vengono gestiti direttamente dalla magistratura (potranno uscire da li solo se si accordano coi magistrati).
La sospensione del diritto funziona a macchia di leopardo, un gruppo molto forte dice il diritto internazionale li non vale e si sospende; Israele ha più di duecento sanzioni dall’Onu per avere violato norme di diritto internazionale però se ne frega; è forte localmente e sospende, poi si vedrà.
Questa è una nuova forma di totalitarismo nella quale ci proietta il capitalismo finanziario per poter reggere la valorizzazione del capitale a tutti i livelli, anche di organizzazione dei poteri territoriali. Una sospensione immensa di diritto tutta italiana è quella delle bonifiche: da trent’anni la magistratura emette condanne su fabbriche di amianto, su intossicazioni di ambienti e territori, si pronuncia sostenendo che quella terra va bonificata, ma il diritto si sospende; anche l’Onu ha detto la sua, ma i poteri locali non lo fanno, (con la logica del perché dovrei farlo io? lo faccia il vecchio padrone che nel frattempo è sparito, non si sa più dove sia).
Raccontando delle storie succedono delle cose; si mettono in movimento delle dinamiche che creano orizzonti e sistemi di relazioni. “Tutti gli immaginari sono stati colonizzati, siamo dentro un mondo a immaginario cablato, dove non si riesce a vedere oltre”.
In realtà questo è il modo capitalistico che funziona con regole, principi e dispositivi di uno dei sistemi possibili coi suoi limiti oltrepassati, che vanno raccontati.
“Dobbiamo ripensare un mondo immaginario”, ma che a dircelo sia Renato Curcio suscita quasi sempre delle perplessità: un quadro della pittrice palermitana Daniela Papaia rappresentante una deposizione dalla croce con un operaio al posto di Gesù, in procinto di essere esposto a Palazzo Marini (sede distaccata della Camera) in una mostra sulle “morti bianche”, fu rispedito al mittente: il lavoratore adagiato fra le braccia dei colleghi assomigliava troppo a Curcio.
“Lui non è diventato un uomo daffari come è successo in Francia ai poeti del ’68 che ora sono i più grandi uomini daffari!”, si lamentò la francese Fanny Ardant, musa di Truffaut e sua grande estimatrice; ma venne criticata dall’intero Festival di Venezia e in particolare da Michele Placido che disse in quell’occasione che la Ardant è vissuta con quella cultura francese che legge la storia degli altri accecata dalla passione.
La distonia arrivò fino alla dottrina Mitterand che “permetteva l’asilo agli attivisti che avessero rotto con la macchina del terrorismo”. Ma da Bernars Henry-Levy a Fred Vergas, tutta una serie di personalità francesi considerava che l’Italia degli anni ’70 non fosse “totalmente democratica”.
“Quello del pettirosso è un coraggio umile e testardo come quello di chi dallincendio della Storia si leva leggero col suo sogno di libertà intatto”, ha scritto Maurizio Maggiani. Il percorso compiuto da Renato Curcio somiglia a quel pettirosso che vola più in alto e non si dà confini, combattente senza leggi e senza padroni. Fabrizio De Andrè, in quella che egli stesso definì una canzone disperata, un atto d’accusa verso quella falsa democrazia, definisce Renato Curcio come un carbonaro in mezzo alle utopie: utopia della libertà, utopia dell’anarchia, “dove chi vuole rimanere libero può farlo solo se ha un cannone nel cortile”.
Un uomo che sa raccogliere le sfide e guardare oltre come Antonio Presti, ideatore della Fiumara d’Arte, ha contattato Renato Curcio e Agostino Ferrari (pittore della decodificazione dei simboli), per realizzare il progetto di una particolare camera tra le altre camere d’arte del suo Museo/Albergo, a Castel di Tusa.
Ancora in libertà vigilata, tra un permesso e l’altro e con i carabinieri alle costole, Renato e Agostino l’hanno realizzata utilizzando scritture arcaiche, geroglifici egiziani, segni enigmatici e misterici siciliani, alfabeti mistici della tradizione orientale, la Tavola dei Dieci comandamenti e il Codice di Hammurabi.
“La scrittura prescrive comportamenti, la scrittura è un codice”, spiega Curcio.
“Curcio rappresenta un momento della storia dell’Italia contemporanea”, ha spiegato Antonio Presti a quanti gli chiedevano come mai avesse commissionato proprio all’ex capo delle Br l’allestimento di una delle stanze del suo albergo.
L’opera è un omaggio all’utopia ideologica. La potenza del segno che crea i codici della comunicazione, delle religioni, delle ideologie è realizzata e scritta su un foglio immaginario che avvolge tutta la stanza. Sogni tra i Segni è il suo nome ed evoca la condizione di chiusura alla quale solo la scrittura dell’arte riesce a dare una pulsione di libertà. Per il pettirosso da combattimento l’energia di quella stanza dovrebbe poter donare al viaggiatore la capacità di commuoversi, di essere come è egli stesso, “sensibile alle foglie”.
Foto di prima pagina tratta da nuke.alkemia.com