In Sicilia la riforma delle Province e dei Comuni? No, solo una grande confusione!

di Salvo Salerno

Con l’approssimarsi dell’autunno, il Governo Crocetta, per attuare la sua abolizione delle Province, tira fuori un altro monstre e cioè la suddivisione della Sicilia nelle antiche Tre Valli (Val Demone, Val di Mazara, Val di Noto), ma aggiungendovi l’introduzione delle tre città metropolitane di Palermo, Catania e Messina, istituto, questo, però, non previsto nello Statuto regionale. A questo si aggiunga la soppressione di un numero imprecisato di Comuni, sia per “spending review”, sia perché assorbiti dalle tre città metropolitane..

La volontà dichiarata dei Costituenti dello Statuto regionale fu quella di costruire la Regione, partendo dai Comuni. Invece è accaduto il contrario e questa Regione, che già è stata costruita dall’alto e con logiche centraliste, oggi con il Governo Crocetta, incrementa questo suo profilo accentratore, assorbendo molte delle competenze delle disciolte Province ed altresì imponendo ai Comuni tutte le scelte che invece dovrebbero essere il frutto di autodeterminazioni autonomistiche…

LE LIBERE CONTEE DEL FICODINDIA – Nella terra del Gattopardo e di Pirandello si colloca a giusta ragione la location della putativa riforma abolitrice delle Province siciliane. Chi volesse dedicare qualche minuto (non ne occorrono molti) alla lettura dell’unico articolo della legge regionale 27 marzo 2013 n. 7 “Norme transitorie per l’istituzione dei Liberi Consorzi Comunali”, oltre l’introduzione delle città metropolitane, non ci troverebbe traccia di quella riforma così clamorosamente strillata sui media, ma soltanto la negazione del diritto di voto per il ricambio degli organi delle Province e il relativo commissariamento: nient’altro, ovviamente, fatta eccezione per l’anticipazione che “gli organi di governo dei liberi Consorzi comunali sono eletti con sistema indiretto di secondo grado”.

Ed infatti un coevo disegno di legge governativo, il n. 241 del 5 marzo prevede come organi consortili il Presidente e la Giunta eletti “in secondo grado” dal Consiglio consortile, il quale a sua volta coincide con l’assemblea dei Sindaci.

Altra informazione che si ricava da questo disegno di legge è quella che prevede una base minima di 150.000 abitanti per costituire il Consorzio.

Lasciamo al distinto dibattito costituzionale la disamina dei numerosi vizi di costituzionalità di cui è gravida questa legge ed il complessivo progetto che la sottende, quindi qui ci limiteremo a trattare una vulgata di pratica comprensione.

Apparentemente il Governo regionale e la maggioranza che ha votato questa legge hanno attuato lo Statuto regionale, il quale, appunto, all’art. 15, aveva istituito i “liberi consorzi comunali”, abolendo le “circoscrizioni provinciali” (dello Stato). In Sicilia quindi, a quanto pare, siamo stati più bravi e rapidi del Parlamento statale. Sembra l’uovo di colombo, ma – ricordando che questa è appunto terra del Gattopardo e di Pirandello – la realtà giuridica ed effettuale racconta un’altra storia, se solo proviamo ad uscire dalla trappola dei nominalismi.

La domanda è: si poteva progettare una riforma di effettivo efficientamento delle Province siciliane, senza ritenersi “costretti” dalla formula statutaria del “libero consorzio comunale”, come assume il Governo regionale? La risposta è sì, perché, laddove il Governo regionale ha voluto cambiare i connotati nominalistici e sostanziali di altri Organi previsti dallo Statuto, lo ha fatto liberamente (anche troppo liberamente), come dimostra oggi il dato che l’Assessorato “dell’Agricoltura e delle Foreste”, così scolpito dall’art. 14 dello Statuto, per un preciso principio del sistema ordinamentale delle Foreste e del Demanio Forestale che fu illustrato nella sentenza 5 agosto 1949 n. 10 dell’Alta Corte per la Regione siciliana (Corte Costituzionale in Sicilia), ciononostante e senza problemi, è stato cambiato prima da Lombardo e poi da Crocetta in “Assessorato regionale dell’agricoltura, dello sviluppo rurale e della pesca mediterranea”.

Creava forse imbarazzi alla politica di questo Governo il sostantivo “Foreste” evocante la cattiva immagine degli operai forestali, talchè oggi il Governo può dire che il problema dei “forestali” è stato … eliminato.

Non è importato molto, al Governo regionale, il fatto che, dopo la Riforma del Titolo V della Costituzione le Province italiane, incluse quelle siciliane, sono entrate, equiordinate insieme ai Comuni, alle Regioni ed allo Stato, nella attuale “forma” della Repubblica, attuata con la legge costituzionale 18 ottobre 2001 n. 3. E con tale riforma sono entrati nell’ordinamento repubblicano principi fondamentali come la sussidiarietà verticale e l’autonomia statutaria di Comuni e Province, principi in base ai quali il Comune “legifera” in modo esclusivo nel suo livello territoriale e di interessi, oltre il quale, per le materie non regolabili dal Governo locale, il potere normativo ed amministrativo passa all’Ente concentrico via via più vasto, appunto la Provincia e successivamente la Regione, fino allo Stato.

In questa rinnovata cornice costituzionale lo Statuto dei Comuni e delle Province, dopo la fase di cauto regime avviata con la Legge 142/1990 sulle autonomie locali, viene rilanciato quale fonte normativa non più meramente regolamentare, ma “subprimaria”, cioè espressione di autonomia e sovranità degli enti locali, in una logica che impone alla Legge, sia essa statale o regionale, di limitarsi a dettare i principi inderogabili, gli obiettivi necessari da perseguire e gli interessi da tutelare, peraltro, proprio in armonia con il citato principio di sussidiarietà, nella sua dimensione sia orizzontale (società civile, volontariato, etc.) e verticale (Comuni, Province, Regione, Stato).

Insomma spettava ai Comuni ed alle Province dettare le regole organizzative del proprio governo e, se proprio si vuole restare nella logica crocettiana dei liberi consorzi comunali, stava ai Comuni decidere le forme e i modi del proprio associarsi.

Invece, qui, di libero, non c’è nulla. Le “spoglie” funzionali (competenze su strade, scuole, servizi sociali, ambiente, etc.) delle Province, si prevede saranno ripartite tra Regione e Comuni, con l’effetto di accrescere, da una parte, il già ipertrofico e malfunzionante corredo competenziale della Regione e dall’altra di aggravare i Comuni di nuove competenze dirette, per le quali dovranno trovare le risorse con l’aumento del carico fiscale.

Qui senza considerare che il destino dei 6.500 dipendenti provinciali resta tutt’altro che chiarito, atteso che né il Comune, né la Regione possono accollarseli senza derogare ai vincoli di legge in materia di costo del personale e di patto di stabilità, né si vede come possano attribuirseli degli organi associativi di Comuni, senza alcuna legittimazione politica diretta.

Il paradosso di questa pretesa riforma è che, con l’introduzione del “liberi consorzi comunali”, presume di attuare lo Statuto regionale, in violazione della Costituzione, mentre all’inverso, con l’introduzione delle città metropolitane di Palermo, Catania e Messina, presume di attuare la Costituzione (art. 119), ma forzando lo Statuto regionale, che invece non le prevede.

Connessa profondamente al tema testè trattato è l’altra pesantissima questione delle rappresentanze indirette o di “secondo grado”, soluzione scelta dal Governo, il quale, legandosi alle più antiquate legiferazioni regionali degli anni ‘50 del secolo scorso, si “dimentica” totalmente le conquiste costituzionali di cui ai nuovi artt. 114, 118 e 119 che hanno “costituzionalizzato” le Province e con le quali, molto in breve, le comunità locali si autogovernano, si danno norme organizzative (gli Statuti), eleggono i propri rappresentanti, regolamentano i servizi, legittimano col voto le imposizioni tributarie, secondo il principio “no taxation without rapresentation”.

Tutto questo non potrà operare attraverso un ente consortile che, di territoriale, ha solo il nome, ma non l’effettività politico-rappresentativa.

La base demografica di 150.000 abitanti individuata nel progetto legislativo del Governo, peraltro in contrasto con la Deliberazione del Consiglio di Ministri del 20 luglio 2012, che, per le Province ha definito tali requisiti, in una popolazione residente non inferiore a 350.000 abitanti, si presta all’obiezione che saranno possibili, in Sicilia, accanto a quello dato per … sicuro di Gela, almeno una trentina di altri “liberi consorzi”, con buona pace di quella “razionalizzazione” amministrativa a parole perseguita. Niente male per quello che si voleva fosse un “ente intermedio di area vasta”, giacché, in questa vicenda, come si vede, la cd. “area vasta” potrebbe risolversi in microfrazionamenti particolaristici a tutto discapito delle economie di scala di enti più vasti come le attuali province, né è mai nato alcun “ente intermedio” in senso costituzionale, cioè autarchico, territoriale e politico. E l’esperienza fallimentare di altri “Consorzi” obbligatori tra Comuni, come le Società d’Ambito per i servizi idrici e per la gestione dei rifiuti (Ato), dovrebbe consigliare una intensa rimeditazione dell’affare.

Su tutto incombe l’interrogativo, anche questo costituzionale e di buona amministrazione, su come presume il Governo regionale – senza averne alcun potere – di disporre indirettamente su una delicata materia organizzativa statale nella quale operano enti ed organi come le Prefetture, le Questure, i Provveditorati, gli Ordini Professionali, etc., determinando un grave rischio di default del sistema amministrativo statale in Sicilia, le cui conseguenze sarebbero pagate proprio dai “liberi” Comuni e soprattutto dai cittadini.

 


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