In difesa dei piccoli negozi artiginali

La donna disoccupata del Sud ha ovviamente tutto il tempo per stare su Facebook e spulciare link per link la situazione attuale della sua terra. Tra tutti ecco un piccolo pezzo di Social Sicilia che immediato fa scattare una riflessione che non può mancare di condividere con tutti.
Il titolo “A Palermo (e non solo) i negozi stanno chiudendo con la stessa velocità con cui Speedy Gonzales sfugge a Gatto Silvestro”. A parte che Speedy Gonzales è inseguito dall’insopportabile papero Duffy Duck, l’articolo cita De Magistris Bellotti, Grande Migliore, Brico Arrigo, Coop, come gli esempi recenti più eclatanti.
Sostiene che i piccoli esercizi chiudono per le errate strategie di gestione mascherate con la crisi (speriamo che non lo leggano gli interessati!) per la crescita esponenziale dei negozi cinesi più dei cassonetti della spazzatura (beh, impossibile direi) e, infine, per i grandi centri commerciali aperti di recente.
Inoltre l’articolo riporta un parere ‘autorevole’ dell’ingegnere Carlo De Benedetti (il presidente del gruppo editoriale L’Espresso, mica ‘bau bau-micio micio), presente a Palermo per una Lectio Magistralis sull’essere imprenditori oggi, come da sua citazione.
Ora mi pare di ricordare di aver letto alcune sue affermazioni, del presidente del gruppo editoriale L’Espresso, mica ‘bau bau-micio micio, su Affari e Finanza di Repubblica del 16 gennaio 2011.
Per De Benedetti “la Fiat sarà sempre più americana, e quella che sta vivendo il gruppo torinese è una svolta storica inevitabile. Non entro nel merito di cosa è accaduto – dice – ma faccio una riflessione non ideologica sulla Fiat. Credo che tutti debbano dire grazie a Marchionne che ha preso la Fiat in un momento di baratro e l’ha salvata. Una cosa non scontata quando ha cominciato. Torino e non solo Torino devono essere grati a Marchionne per il lavoro fatto” (soprattutto lo stabilimento di Termini Imerese aggiungo io).
Ebbene, questo autorevole signore dichiara sulla situazione dei piccoli commercianti falliti a Palermo, che “ciò si è verificato per il fatto che il sistema distributivo italiano sia stato obiettivamente in ritardo rispetto ad altri modelli (francese e tedesco). Quando c’è innovazione che va a favore dei consumatori, bisogna favorirla. I consumatori sono quelli che devono essere soddisfatti, non semplicemente i commercianti. So che è impopolare dirlo ma è la realtà”.
Simile al parere sul caso Fiat, mi pare sul ruolo guida dei sistemi economico-produttivi esteri! Per lui identità locale e imprenditorialità sono antitetici. E vista la tendenza odierna dei consumatori palermitani, i quali preferiscono i centri della grande distribuzione ai piccoli esercizi commerciali, secondo l’autorevole De Benedetti, essi non possono farci nulla: devono accettare le scelte degli ex clienti oramai, e chiudere la propria attività magari storica per la città di Palermo.
Ora, mi chiedo: la produzione di una Paese, se tradizionale e storica, è sinonimo in genere per gli altri mercati di qualità (un esempio per tutti il Made in Italy nel mondo), allineandoci a modelli di mercato importati non facciamo altro che annullare la nostra identità culturale e commerciale.
Se passeggio per le vie di Venezia, sono le piccole botteghe e i negozietti a farla da padrone, anche da noi ci sono realtà di pregio che per più di cento anni hanno rappresentato la nostra comunità. Ricercherei il problema allora nella perdita di identità del siciliano! Nella perdita di quella dimensione isolana che tanto ha affascinato per secoli il mondo intero.
Il ruolo dell’artigianato, della sartoria, dell’oreficeria, del pellame, dell’agroalimentare a conduzione familiare è tramontato per una produzione senza identità né pregio, riflesso della globalizzazione che ha assorbito anche i valori per noi elemento identificativo della produzione.
La domenica c’era il panettiere e il pasticcere aperti, alle volte il fioraio, ma fino all’ora sacra del pranzo, e la domenica pomeriggio era dedicata alla casa e alla famiglia!
Un tempo non lontano, prima dell’arrivo dei grandi centri commerciali, c’era un sistema che rappresentava l’organizzazione sociale. Mi spiego meglio: i negozi avevano orari e giorni di chiusura in quanto c’era una famiglia e una casa da cui tornare e dei tempi ad essa dedicati. I negozi erano gestiti con cura e la produzione era di maggior pregio poiché rappresentava il nome di chi la realizzava e il suo valore in città. Insomma, la società aveva schemi e valori che richiedevano arte del commercio e tradizione familiare nel settore.
Oggi le nuove famiglie sono allargate, di fatto, atipiche; si passa il tempo a ciondolare nei centri commerciali per non stare a casa, si mangia nei fast food, ci si veste tutti allo stesso modo, e nei visi si legge un malessere diffuso ma senza nome.
Le case sono vuote e diventa quel centro commerciale il luogo nel quale fino a notte fonda si condivide senza farlo il tempo insieme: mamme e papà con i figli, coppie tra loro, giovani.
Frattanto il piccolo negozio con le sue opere artigianali, con i suoi alimenti, i tessuti, le scarpe, scivola nel buio dei ricordi dei nonni, lasciati a casa peraltro la domenica un tempo sacra!
Vorrei dire al signor De Benedetti che ogni Stato a cui lui rinvia come modello economico-produttivo vincente ha identità e produzione locale forte, che i piccoli commercianti andrebbero raccolti e protetti dalle grinfie della vuota grande distribuzione, in quanto rappresentano il modello Made in Italy puro, amato nel mondo e non paragonabile a nessun altro.
Non lasciamoci annullare: combattiamo per il lavoro come diritto e per la nostra identità produttiva specchio della comunità siciliana, da sempre ammirata. Diciamo al sig. De Benedetti che questo modello se lo porti in Cina, lì di certo avrebbe il successo che merita, noi siamo artigiani, sarti, orafi, ceramisti, agricoltori e tanto altro unici, non in catena di montaggio!

 


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