Il “vizio assurdo” da Cesare Pavese a Robin Williams

 

Verrà la morte e avrà i tuoi occhi-
questa morte che ci accompagna
dal mattino alla sera, insonne,
sorda, come un vecchio rimorso un vizio assurdo. (…)
Cesare Pavese

 di Cettina Vivirito

L’improvvisa e apparentemente inaspettata dipartita di Robin Williams ci lascia un profondo senso di laconica e impavida solitudine e ci induce a riflettere, come tutte le volte che accade – e ultimamente è accaduto non solo a grandi attori come lui, ma anche a imprenditori a lavoratori e a padri di famiglia – su un tema caro al suicida per antonomasia, Jean Améry, divenuto famoso col suo libro “Levar la mano su di sé”, e quindi su un fenomeno che da tempo ha superato il livello di guardia.

Sarà che Robin Williams ha toccato corde a cui siamo molto sensibili come quelle della poesia (indimenticabile, nel film più noto di cui è protagonista, “L’attimo fuggente”, la nascita della “setta dei poeti estinti”), della libertà, della sana opposizione, o perché ha interpretato divinamente la fantasia e il suo regno in cui tutti ci rifugiamo nei nostri momenti peggiori e anche in quelli migliori, o forse perché nella credenza ereditata dai classici del pensiero, gli eroi sono immortali, e per noi spettatori (adulti, adolescenti o bambini), Robin Williams era entrambe le cose.

Améry nel suo libro in verità ne parla in altri termini; non parla di suicidio ma di “libera morte”, e lo fa con l’autorità di quanti si sono trovati, come lui stesso a un certo punto della sua vita, “prima del salto”: a quel punto arrivati il salto d’altronde è facile, sia esso da un quinto piano o da una rupe solitaria.

Accantonando polemiche, discussioni e illazioni persino di cattivo gusto che ancora una volta, nel caso di Robin Williams, nessuno ha voluto risparmiarsi e risparmiare all’umanità (era un drogato, un alcolista, aveva il morbo di Parkinson, era depresso, vizi e problemi finanziari e, che leggere di più, persino che la sua morte sia stata anticipata dai Griffin – l’episodio s’intitolerebbe “Fatman e Robin” – e così via, commenti tutti che lasciano intuire il sottile piacere del vedere il male insinuarsi in quelle vite considerate unanimemente realizzate e felici), l’argomento, più in generale ignorato, ha meritato e merita più serie riflessioni.

Per inciso, è bene sapere che l’Institute for Health Metrics and Evaluation della University of Washington, ha reso pubblici i dati relativi al numero dei suicidi in America, che supera quello dei decessi per incidenti stradali; nel dettaglio, i dati mostrano un aumento preoccupante di suicidi nell’ultimo decennio, soprattutto tra i “baby boomer”, (molti dei quali uomini), che non ce la fanno a invecchiare. Dal 1999 al 2011 il tasso di suicidio tra gli adulti di età tra i 45 e 64 anni sarebbe aumentato del quaranta per cento, secondo i Centers for Disease Control and Prevention; la percentuale di suicidi in questa fascia d’età ha superato quella di tutte le altre fasce d’età, più giovani o più vecchie.

“I ricercatori – scrive ancora Zusha Elinson – sostengono che i baby boomer affrontano sfide che sono uniche rispetto a quelle di altre generazioni”.

Si aggiungono le pressioni economiche legate alla crisi finanziaria, il deterioramento delle condizioni di salute e insieme l’uso esagerato di farmaci. Inoltre, come sostiene la dottoressa Julie Phillips, della Rugers University, “non dimostrano, con il passare degli anni, un interesse crescente verso la fede come accadeva per i loro predecessori anagrafici. I baby boomer sono spesso single – divorziati o mai sposati – e senza figli rispetto ai loro predecessori”.

Nonostante i dati allarmanti, il suicidio, in America (dove è pratica frequente) non riceve l’attenzione scientifica, culturale e politica dedicata ad altri problemi sociali e medici; ” (…) non ci sono fondi per la ricerca e per la prevenzione paragonabili a quelli raccolti per il cancro o l’Aids”, dice alla NbcNews Matthew Nock, professore di psicologia a Harvard e uno dei massimi studiosi del fenomeno, soprattutto “a causa dello stigma sociale ad esso associato” (il suicidio come un chiaro indizio di follia, di egoismo o d’immoralità).

Scrive Améry: “Chi deve morire si trova nella condizione di dovere fornire una risposta a un destino, e la sua replica potrà essere la paura o il valore. Il suicida o l’aspirante suicida prende invece la parola”. È per questa insolenza, forse, che chi leva la mano su di sé diventa il “grande scomunicato” in quasi tutte le società (lo stigma sociale di Nock).

In Italia della questione si è occupata principalmente l’Associazione radicale Luca Coscioni, a partire dalle questioni che il gergo della bioetica chiama “fine vita”. La libertà di scegliere se vivere o morire (e cosa sia meglio, diceva Platone, Dio solo lo sa) diventa non già un diritto, ma l’oscuro fondamento di ogni altro diritto, la libertà anteriore a tutte le altre, la libertà cioè di disporre sovranamente della propria vita.

Probabilmente ogni discussione sull’eutanasia o sull’accanimento terapeutico dovrebbe partire da qui; e a tal proposito rimane indimenticabile un’altissima pagina di Guido Calogero, apparsa sul Mondo nel 1962, che s’intitolava: “Eutanasia e suicidio”, dove sosteneva che “non si può sciogliere il problema giuridico e morale dell’una senza aver prima illuminato i dilemmi dell’altro”; che “l’individuo ha il diritto di decidere se preferisce dimettersi dalla vita; e nessuna autorità, né umana né divina, in età non più feudali, può continuare a pretendere che egli sia solo un suddito al suo servizio, così come nessuna comunità civile può vietare a un suo cittadino di decidere, a un certo punto, di dimettersi da suo membro”.

“Ma allora – continua – nel quadro di questa dignità suprema, rientrerà bene anche il gesto di chi, dopo aver detto le sue ultime parole a chi gli sta intorno, volgerà la mano a prendere la dose mortale di sonnifero, che non gli sarà stata più nascosta o tenuta lontana, come se egli fosse diventato un infante irresponsabile proprio nei momenti più conclusivi e solenni della sua vita”.

Rinnegarsi diventa impossibile, significherebbe sottomettersi di nuovo alla logica della vita, e per chi si trovi “prima del salto” si tratta di una logica remota e incomprensibile: “Fin dove sono malato se nel mezzo della vita cerco l’abbraccio della morte e tento di collocare la sua assurda logica pateticamente accanto a una non meno assurda logica della vita?”, si domanda Améry.

La sua analisi dell’atipicità del singolo diventa l’occasione non solo per ricordare le responsabilità della società in questo processo trasformativo, ma anche per riconoscere il diritto di opporsi ad un tale abuso di forza. Tuttavia, per Améry, il risentimento non è una spinta eversiva; più semplicemente, il suo legame profondo col passato rende inaccettabile una rinascita capace di cancellare il peso di ricordi tanto dolorosi.

Un passato straziante, quello di Jean Améry, in realtà Hans Mayer, un austriaco ebreo arrestato dai nazisti nel 1943 in Belgio, dove si era unito alla resistenza. Venne torturato e poi internato ad Auschwitz per due anni; come altri (il più noto dei quali è Paul Celan) dopo la liberazione volle scrollarsi di dosso la lingua dei torturatori: cambiò il nome proprio nel francese Jean, anagrammando il cognome in Améry. Auschwitz e il proprio suicidio diventano due facce della stessa medaglia per Améry che percepisce la questione su un piano molto profondo: il grande rifiuto opposto al Lager e il grande rifiuto opposto alla vita che divennero una cosa sola. All’alba del 26 gennaio del 1955 lo trovarono impiccato a un’inferriata della rue de la Vieille-Lanterne, a Parigi.

La sua intuizione fondamentale consiste nell’aver colto la complessa ambivalenza del risentimento che precede ogni suicidio, che è rifiuto reattivo del presente e allo stesso tempo attaccamento emotivo, esistenziale al passato; la sintesi sembra essere il rendersi conto che chi uccide e chi viene ucciso possono diventare la stessa persona, vanificando così ogni logica e demolendo la dicotomia tra vita=bene e morte=male, rendendo l’atto estremo una disperata affermazione di libertà, completamente slegata da ogni giudizio morale.

Ma ogni suicidio, scrisse Balzac, è anche un poema solenne di malinconia. Per il cortocircuito logico-esistenziale che viene a crearsi non esiste rimedio pratico e nella teoria ci si può limitare a prendere atto delle due direzioni possibili qualora ci si collochi in modalità borderline, ovvero sulla soglia tra la vita e la morte, dalle quali alternativamente si viene strattonati. Accade spesso però che “le soglie” siano indugiate dalle nature più riflessive, laddove invece altre nature transitano distratte. Anche Jean Améry si trattenne più volte sulla soglia tra la vita e la morte. Nel febbraio del 1974 tentò il suicidio, nell’ottobre del 1978 portò a compimento l’opera in una camera d’albergo a Salisburgo. Il suo discorso sulla libera morte è stato scritto esattamente nello spazio temporale tra il suicidio mancato e il suicidio riuscito.

Molto si è scritto sui suicidi degli ex deportati, da Primo Levi a Bruno Bettelheim a Tadeusz Borowski, allo stesso Améry, anche se, spesso, sono stati considerati ripercussioni differite, crimini postumi del nazismo; e senz’altro c’è del vero. Ma è vero pure che Levi considerava il suicidio un atto “dalla cintola in su”, come dichiarò in un’intervista, un atto pienamente umano che le bestie non compiono, e neppure l’uomo ridotto a bestia ( e per questo erano rari i suicidi nei campi).

Probabilmente è il fallimento l’elemento a cui non vuole soggiacere l’aspirante suicida. “Per colui che con maggiore o minore intensità ha sempre avvertito la nausea, il fallimento Nella vita e il fallimento Della vita essi divengono un’autentica atrocità che egli intende respingere: nell’orgoglio e nel lutto. Egli si schiera a fianco di coloro che il primo babbeo definisce vigliacchi, come se vi fosse coraggio più nobile di quello che si oppone a quell’angoscia della morte che è all’origine di ogni angoscia”.

La libera morte è dunque “la risposta alle tormentose intimazioni dell’esistenza e in particolare del trascorrere del tempo, è l’ultimo rifugio del principio d’individuazione, l’estremo sussulto di autonomia, una sfida ultima e conclusiva.

Ricordo la lectio magistralis di Claudio Magris, a Venezia, in un campo assolato e silenzioso, sotto i grandi ombrelloni bianchi: “(…) si tratta di vivere da Persuasi o da Retori”, diceva. E poi citando ripetutamente Michaelstadter (ancora un suicida), spiegava con maestria semplice che per Persuasione intendeva il pazzesco della propria vita, la capacità di vivere l’attimo, ogni attimo, non gli attimi privilegiati come quelli pretesi da Faust per dare l’anima al diavolo, ma quegli attimi vissuti senza sacrificare il presente, i propri cari, senza consumare incessantemente la vita nell’attesa di un risultato che è sempre da venire (proprio lo stesso attimo fuggente con il quale c’incantò Robin Williams).

“Persuasione è la vita nella sua varietà”, ripeteva con afflato, non solo nei momenti sublimi, alti (anche se di indubbia predilezione), ma proprio in ogni suo momento, come bere un bicchiere d’acqua. Per Retorica intendeva invece quell’enorme ingranaggio del sapere che gli uomini incapaci di vivere persuasi, vale a dire di vivere nel presente, ergerebbero come una sorta di grande muraglia per proteggersi dal guardare il proprio vuoto, per proteggersi dalla consapevolezza di non essere capaci di vivere in un non vivere mai.

Raccontava a un pubblico attento nell’assorto silenzio del campo ancora di Michaelstadter, il giovanissimo filosofo di Gorizia che non fece in tempo a vedere pubblicata la sua tesi di laurea, la Persuasione e la Retorica, (che diventò post mortem un libro di Adelphi) dell’acerbità dei tempi di questo ragazzo rispetto alla maturità dei risultati, una delle tesi di laurea “più notevoli e originali che siano mai state scritte”, come sostenne Joachim Ranke.

“Poiché la vita consiste nell’inseguire la vita, ma raggiungerla significa esserne espulsi, cioè morire, vivere è un fatto intrinsecamente tragico”, è il sillogismo di Michaelstadter. Alla vigilia della prima guerra mondiale, in quella periferia italiana della Mitteleuropa al tramonto che è Gorizia, al di fuori delle conventicole letterarie e filosofiche, il giovane filosofo centra la sua analisi sul tema della morte, la realtà colpita dall’universale rimozione, la “perfida sorba” addentata, origine di ogni violenza e di ogni retorica.

Le sue pagine sul “sordo e continuo dolore” che “stilla sotto a tutte le cose”, sulla relazione interumana come “amplesso mortale”, sull’uomo in preda ai terrori della notte e del sogno, dove si ritrova “senza nome e senza cognome, senza consorte e senza parenti, senza cose da fare, senza vestiti, solo, nudo, con gli occhi aperti a guardare l’oscurità”, assumono, nella loro pregnanza esistenziale, il valore di una lucida testimonianza sul disagio di una società e di una civiltà. Uno che predicava bene e razzolava male, ricordo di aver pensato, che non fu interamente capace di vivere da persuaso; diceva di conoscere la persuasione come l’insonne conosce il sonno, non era una buona conoscenza. Si uccise a ventitré anni; come dire che la sua fragilità psichica si è resa indipendente, vincendo sull’intelletto. Incapace di vivere persuaso, fu incapace di viverne senza.

“Gli mancò quell’umiltà che fa dire: io amo l’acqua”, continuava con passione crescente Magris dal palco, confutando queste tesi pur apprezzandole, in un contraddittorio indimenticabile, “non solo la grande acqua del fiume, quella del mare, che pure non vanno disprezzate”, ma “amo l’acqua dello stagno”, della palude, l’acqua dove i bambini vanno a giocare, fanno la pipì, dove immergono le mani fanno castelli di sabbia, quella poltiglia che dà l’incanto dell’infanzia. Non c’è contraddizione tra questa spinta di natura metafisica che c’incanta di promesse, di favole e quest’acqua che è sabbia che è tutto che è anche porcheria è confidenza col liquame immediato della vita che è altrettanto importante del grande mare blu. Come dire a un bambino che gioca, che gioca e va su e giù e corre nel giardino, con la truce solennità della voce di un adulto: “Cosa faresti se ti dicessero che morirai tra dieci minuti?” e il bambino: “Continuerei a giocare”.

Questa è persuasione, pensai, e non è da buttar via.

 

 

 

 

 

 


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