Il viaggio di Monika Bulaj alla ricerca dell’altro

Abbiamo voluto chiedere da dove abbia origine l’oggetto della sua arte che è la fotografia. Le abbiamo chiesto sul suo rapporto con la scrittura. Abbiamo cercato di indagare su questa antropologa, fotografa, e scrittrice che con tutta la sua vita vuol andare con ostinazione “alla ricerca dell’altro”, che è ora il nomade, ora il credente, ora l’uomo situato in contesto religioso che lo identifica, alla ricerca di quei luoghi ove un popolo si determina come tale, alla ricerca del sacro, come identificativo della dignità altissima di ogni essere umano. Alla ricerca – con le sue parole – di “luoghi e momenti ad alta tensione atmosferica, dove le genti del  Libro – ebrei, cristiani, musulmani –  rilevano la loro comune appartenenza”.

Il suo lavoro di fotoreporter ha infatti come oggetto “le strade dei popoli tra Gibilterra e la Persia”, ovvero i percorsi di fede attraverso una ricerca estenuante e dolorosa che metta in luce le analogie diversi modi di vivere l’esperienza religiosa e il loro rapporto con il contesto politico e sociale.

Il senso della sua fotografia vuol essere proprio questo tradurre nel linguaggio dell’occidente (“Le lingue che conosco non sono mai abbastanza, e il rapporto fondamentale è quello con la mia lingua madre”) questi percorsi di condivisione e di ricerca con i popoli.

La sua mostra fotografica “Aure”, inaugurata venerdì 25 maggio nei sotterranei del Monastero dei Benedettini (organizzata dall’associazione Leggerete in collaborazione con i Circuiti culturali dell’Università, l’Istituto Polacco a Roma, l’assessorato regionale ai Beni culturali e con l’assessorato provinciale alle Politiche culturali) , resterà apertà fino al 9 giugno: “E’ un momento di incontro – spiega -. Una mostra dà sempre la possibilità degli incontri più belli”. I suoi riferimenti culturali sono vasti ma riportano essenzialmente all’ermeneutica del contesto che non separa l’osservatore dal luogo e dalla collettività con cui entra in contatto. Il paradosso di questo sta nell’elaborato ultimo, cioè nell’oggetto che viene dato dal suo occhio fotografico, così capace di separare invece l’oggetto, cioè di mostrare la sua forma unica, particolare e irripetibile.

Come è cominciato il tuo percorso? Come puoi descrivercelo?
“Un percorso particolare, non esemplare che parte da un lavoro molto sofferto e durato parecchi anni, un lavoro di ricerca antropologica”.

Quale è stata la prima popolazione che hai fotografo?
“Una piccolissima minoranza che vive nel sud est della Polonia ai confini con la Slovacchia, una popolazione che vive in una lingua di terra tra due fiumi. Questo percorso che con la macchina è un luogo che si percorre velocemente, è stato invece il luogo dove io ho vissuto tanti anni”.

Cosa ti aveva attratto?
“In quel luogo mi aveva attratto tutto, era il luogo dell’incontro con una chiesa d’oriente molto ibrida, perché una chiesa ortodossa cattolica, però molto contagiata dalle esperienze barocche latine: un luogo di passaggio, insomma, un laboratorio nel quale avevo imparato condurre le ricerche senza grandi esempi, senza gli strumenti del lavoro. Li, in quel luogo, ho cominciato a fotografare”.

Monika è una studiosa che, a partire dalla consapevolezza dell’incontro con l’altro, afferma che si può elaborare una “condivisione piena e un abbandono del metodo in un luogo difficile e estremo”.”Sono diventata madre da giovane e ho tre figli. Nel luogo della mia prima ricerca ho vissuto con loro per moltissimi anni”. Ci sta raccontando di questa terra tra la Polonia e la Slovacchia, dove ha potuto condividere l’esistenza di questa popolazione senza stato, insieme con le loro sofferenze, morte, vita, memoria. Ci racconta della sensazione di arrivare da lontano, cioè da un contesto altro, pur situato nel suo paese, in quel luogo, diciotto anni fa, in “un tempo in cui non si  potevano che raccogliere le ultime tracce di questa popolazione decimata dal regime comunista”.

Che cosa hai cercato di fare in quegli anni?
“Ho raccolto le ultime tracce di questo mondo, delle persone che parlavano per la prima volta della loro storia e del loro ambiente che stava per scomparire. E io correvo anche a caccia delle ombre. Correvo da un funerale all’altro, perchè questo luogo stava sparendo in modo definivo. Era una lotta contro il tempo perché le persone che mi sapevano trasmettere il sapore di quegli avvenimenti, il valore della loro storia erano di una generazione che oramai si stava estinguendo”.

Con quali sentimenti hai vissuto quella prima esperienza?
“Per me era una questione di vita o di morte, una scelta assoluta. Una scelta assoluta a cui ho subordinato la mia vita, le mie scelte personali, tutto”.
 
Cosa pensavi?
“Avevo una sensazione di profonda ingiustizia innanzi a questo mondo e ai suoi contenuti profondamente interessanti. Un mondo così arcaico, destinato a non esistere soltanto perché esiste un decreto comunista, copiato dal mondo stalinista, imposto e applicato con inaudita violenza. Sono stati deportati in tre fasi, ma con lo scopo di distruggere questa popolazione dalla sua colpa negli anni dal ’45 al ’47. Dopo la morte di Stalin, non permettevano ancora di ritornare. C’era un divieto di ritornare alla propria terra, per loro e per gli zingari. Lo straniero non poteva risiedere nei luoghi di frontiera, doveva essere tenuto lontano dal confine. Questo senza nessuna comprensibile ragione politica. Semplicemente un male gratuito e senza ragione. Questa profonda ingiustizia mi fatto stare lì tanti anni, mi ha fatto lavorare senza sosta e vivere un esperienza troppo grande, troppo difficile che solo adesso ho il coraggio di raccontare”.

Cosa puoi dire infine?
“Tanti anni di ricerca. un infinità di materiale. Dopo diciotto anni ho il coraggio finalmente di scrivere su questa esperienza importantissima”.

Cosa hai imparato, che porti con te da allora?
“Li ho imparato tutto Vivere, lavorare, condividere, parlare”.

Cosa significa condividere, quando viaggi per fotografare?
“Esistono mondi diversi , ma non ho mai avvertito una estraneità nemmeno lì dove mi sarei dovuta sentire straniera, come in Africa, lavorando tra i cristiani in Sudan, dove sono stata lo scorso anno. Ero molto stupita”.

Ci sono dei limiti a questi viaggi?
“Ci sono dei limiti dati dal mio biglietto di ritorno e dalla mia famiglia”.

Cosa vuoi far cogliere dai tuoi reportage?
“Un’altra prospettiva. Un livello umano che va al di là di forme, culture e religioni”.

Ci parli del mondo ebraico? Cogli dei rischi nelle sue forme culturali?
“Nel mondo ebraico esiste la paura dello straniero. Che mette in gioco i contenuti più importanti della struttura religiosa, un rischio inutile, serve per confrontarsi con le tue idee, controllare la fermezza delle tue idee”.

E il mondo musulmano?
“Nell’Islam, l’ospite è sacro, anche perché lo straniero potrebbe essere un angelo”.

Ti sei identificata con la storia dei popoli di cui hai fotografo l’esperienza del nomadismo?
“Mi sono identificata con il cuore degli zingari e dei nomadi che ho avuto la fortuna di incontrare o anche di condividere la vita. In un qualche modo irrazionale, per un qualche motivo, di cui oggi non mi chiedo il motivo. Per esempio, in Iran ho viaggiato con nomadi curdi. Per poco, pochissimo tempo. Quel poco che mi è bastato per capire l’immensa bellezza del loro modo di essere, il loro concetto di spazio completamente indifferente, la loro leggerezza nello spostarsi nel decidere il dove stare e il perché. La loro indifferenza ai cambiamenti violenti. L’immagine di un’autostrada con la fila dei loro camion. Si allontanano con leggerezza, come hanno fatto da secoli. Si allontanano leggeri all’alba, lasciando solamente l’erba schiacciata.”

Cosa ci dice il nomadismo?
“Tante cose, il concetto della morte e come i nomadi trattano i loro morti… La morte e il nomadismo sono due concetti estremamente legati, in alcune culture. La topografia degli spostamenti dei nomadi in Sahara ha a che fare con la loro storia con la fuga dai luoghi della sepoltura”.

E poi ci sono gli zingari?
“I Rom rifiutano la memoria della morte, dei propri morti. Non pronunciano nemmeno il loro nome vero. Hanno un secondo nome per il morto. Buttano qualunque cosa nel fiume per far sì che il morto non torni più, nemmeno per una briciola di pane. Il nomadismo è un grande tema sul quale non si finirà mai di discutere”.

(fonte: www.BdA.unict.it)

Fabio D'Urso

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