Il venerdì nero e la città senza colpe

Dopo aver letto per tre volte – il che capita raramente – l’editoriale comparso in prima pagina de “La Sicilia” del 4 febbraio, ho sottolineato a matita queste righe: “Quello che è accaduto è fuori da qualsiasi logica, come è fuori dalla logica qualsiasi atto di violenza. Serve poco criminalizzare una città o un’intera società. (…) A Catania è accaduto il fattaccio, come era accaduto in precedenza in altre parti d’Italia. (…) Ciò non vuol dire però che sia lecito mettere sotto processo tutta una società. La delinquenza esiste come esiste in altre città (…) Se c’è degrado la colpa è di tutti. E non solo dei politici, anche di quegli intellettuali che con snobismo sono pronti a pontificare”.

Più avanti “La Sicilia” concede qualcosa all’evidenza. Rispetto ad altre città a Catania “c’è più disoccupazione, c’è il malessere dovuto a uno Stato patrigno, c’è la mancanza di un progetto di sviluppo futuro”. Ma il succo del ragionamento sta in quello che ho citato sopra: la teoria del fattaccio. Insomma, la dannata sfortuna per cui, casualmente, proprio qui doveva scapparci il morto; in questa città che ha avviato tenacemente la propria rinascita e che un venerdì nero consegna in chiave negativa all’attenzione planetaria. Perciò minimizzare, relativizzare, metabolizzare; contando sulla breve durata delle emozioni. E intanto additare al pubblico disprezzo chiunque dovesse insinuare un solo dubbio sullo specifico catanese del “fattaccio”: gli intellettuali che pontificano.
 
Agli intellettuali della redazione de “La Sicilia” va dato atto di una grande coerenza. La medesima posizione – levata di scudi contro il nemico esterno ed interno (i denigratori di Catania), “stato patrigno” perché non vuole regalarci il Ponte dei Miracoli, divieto di critica alla classe dirigente locale – fu presa allorché comparve la classifica che relegava Catania all’ultimo posto tra le città italiane. Il medesimo ottimismo sulla rinascita della città fu espresso allorché il quotidiano locale sostenne senza mezzi termini la campagna elettorale per la rielezione del Sindaco più abbronzato d’Italia.
 
Una delle novità è che qualcuno non ci sta. Destra e sinistra? Non credo. La distinzione è trasversale. La cosa veramente singolare è che stavolta a tirarsi fuori non sia qualche eminente Accademico dei Lincei, bensì il presentatore di Sanremo. Infatti, tra le sfortune del venerdì nero, c’è che proprio lui, Pippo, il più telegenico dei catanesi, si sia messo ad indossare i panni del fustigatore scandendo parole pesanti come pietre: “Il problema di Catania è un problema culturale e di classe dirigente”.
 
Ora non c’è dubbio che la violenza negli stadi sia un problema che ha lambito Catania ma richiede soluzioni nazionali. Se volessimo esagerare coi paragoni, potremmo persino spingerci a constatare che i guerriglieri di piazza Spedini sono, in un contesto diversissimo, fratelli di sangue dei casseurs delle notti incendiarie nella periferia parigina. O che i nostri “mammuriani” sono omologhi dello sterminato esercito di guagliuncelli del napoletano e del casertano, la cui tragica epopea è stata raccontata in Gomorra di Alberto Saviano. In un senso molto generale lo scenario della rabbia degli emarginati e della nuova violenza urbana non conosce troppo netti confini. Ma è possibile che “se c’è degrado la colpa è di tutti”, cioè di nessuno?
 
Affinate l‘udito, vi prego. Perché, se la dissonanza con Pippo Baudo ci tiene ancora ai piani alti dell’intellighenzia locale, in basso c’è un rumore di fondo più cupo. E’ il tam tam dei ragazzi che hanno venti anni. E non credono che amare Catania corrisponda a doversi tappare gli occhi e le orecchie: “E io che nella mia città è da anni che non ci sto più bene, che esco con la paura, che mi vergogno quando sento certe discussioni, che mi accendo l’Ipod a tutto volume per non sentire il fragore dell’ignoranza, io non ci riesco a vedere un futuro per me, qui dentro”.
 
C’è un’inarrestabile voglia di fuga. C’è vergogna, c’è sfiducia, c’è rabbia. C’è persino razzismo di classe nei confronti degli “ignoranti”. Ma c’è anche qualche timido segnale di una voglia di cambiare le cose. Se non che, per ricostituire l’orgoglio di essere catanesi, questa generazione ne ha piene le tasche della vostra stucchevole ipocrisia.

Luciano Granozzi

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