Il non-mondo in vacanza a Lampedusa

Ho osservato con attenzione la fotografia della barca dei clandestini alla deriva. Ha l’aspetto e le dimensioni di quelle piccole imbarcazioni per cinque o sei persone che nel periodo estivo si noleggiano sulle nostre coste per un giro di un paio d’ore in mare. Sei metri per due, neanche 12 metri quadrati. Stipate fino all’inverosimile ventisette persone. Ciascuna delle quali aveva pagato 1.500 dollari per l’acquisto dell’imbarcazione senza conducente.

Avevano detto loro: «Seguite le luci delle piattaforme petrolifere e arriverete a Lampedusa». Le luci le videro la prima notte, poi il motore si ruppe e senza orientamento si persero nel mare. Senza cibo e senza acqua, esaurita nei primi tre giorni, i ventisette disperati incominciarono a gettare a mare chi tra loro, sotto il sole cocente di giorno e il freddo della notte, non riuscì a reggere per tutti i venti giorni in cui erano in balia delle onde, senza neppure più la forza di sperare. «Anche per morire paghiamo» ha dichiarato Hammed, 22 anni, eritreo, uno dei sopravvissuti. «Lo sapevamo che con quei 1.500 dollari pagavamo il biglietto per la nostra morte, ma c’era anche la speranza che qualcuno di noi ce l’avrebbe fatta. E allora abbiamo tentato. E’ stato come una scommessa dove in palio c’era la vita o la morte». Se la barca costava 40 mila dollari non si poteva essere meno di ventisette. Il che vuole dire 30 centimetri a persona, acqua e viveri al minimo per ragioni di spazio, bisogni corporali davanti a tutti come gli animali, neppure lo spazio per sdraiarsi se uno sta male. E poi i morti e la puzza dei loro corpi che cancella la pietà.

Ma se la posta in gioco non è quella di migliorare le condizioni della propria esistenza, ma, senza alternative e in piena consapevolezza, quella più crudele di vivere o morire, quali sono le condizioni di vita di Hammed, di Mustafà e di quanti come loro raccattano un po’di soldi come possono nei loro paesi d’origine e poi, dall’Eritrea, dal Mali, dal Sudan, dal Darfur giungono in Libia per l’ultima scommessa con in palio una posta da roulette russa? Non ce lo immaginiamo, non ne abbiamo esperienza, tanto meno percezione, per cui la notizia di questa tragedie, soprattutto se reiterate quasi quotidianamente, ci scivolano sopra la pelle senza provocare alcun brivido, alcuna scossa al nostro sentimento morale. E così la povertà, che dal continente africano dove dilaga, incomincia a intaccare il nostro mondo, non provoca in noi alcuna reazione, anche se sappiamo che l’estrema povertà non è solo mancanza di cibo, non è solo un incontro quotidiano con la malattia e con la morte, ma è soprattutto la fuoriuscita dalla condizione umana e insieme la sua riapparizione come “incidente della storia”, che fa la sua comparsa televisiva quando i conduttori della storia passano da quelle lande disperate che un giorno chiamavamo “terzo mondo” e che ora, visti i tenori di vita raggiunti dal primo mondo, potremmo chiamare “non-mondo”, puro incidente antropologico, non dissimile da quegli incidenti geologici o atmosferici che, sotto il nome di terremoto o alluvione, chiedono soccorso.

Ma cos’è un “soccorso umanitario” se non la latitanza del nostro sentimento morale che si accontenta di un gesto di carità, senza avere la forza di sollecitare la politica? E qui non penso alla politica che fa gli affari con la fame nel mondo, penso alla politica come al “non-luogo” della decisione, perché la decisione avviene altrove, in quell’altro teatro, l’economia, che da due secoli a questa parte sembra aver ridotto la politica a un siparietto di quinta, dove ha luogo la rappresentazione democratica di interessi che operano dietro la scena e lontano dagli schermi. Quando, senza scomporci, veniamo a sapere dai telegiornali che nella regione dei Grandi Laghi, nel Sudan e nel Darfur due milioni di uomini donne e bambini sono stati ammazzati con il machete e un altro milione manca all’appello, un appello che non si fa a nominativo, ma per cifre che oscillano, a seconda dei diversi calcoli delle organizzazioni locali e internazionali, nell’ordine di decine di migliaia, davvero consideriamo questi esseri umani nostri “simili”, simili a noi italiani, tedeschi, francesi, americani, o non piuttosto simili a un gregge di cui non ci interessa la sorte?

E perché non ci interessa? Perché non muove il nostro sentimento morale? Perché forse sospettiamo, anche se poi rimuoviamo il pensiero, che il nostro benessere dipende dalla loro disperazione. Nascosta allo spettacolo quotidiano, espulsa dalla percezione e dal linguaggio, la povertà sembra vivere solo nel gesto distratto di una mano che allunga qualcosa che non cambia di un grammo la nostra esistenza. E così, non toccata, anche la nostra esistenza si rende immune dalla presenza anche massiccia della povertà. Una povertà silenziosa, densa come la nebbia che in modo impercettibile ci tocca da ogni parte e che può passare inosservata solo a colpi di rimozione percettiva, visiva, linguistica. Ma il rimosso ritorna e la povertà materiale di coloro che, invisibili, si muovono nei bassifondi delle condizioni impossibili d’esistenza compie la sua vendetta, mutilando la nostra esistenza, per consentirle di non percepire che il nostro stato di benessere dipende direttamente dallo stato di povertà del mondo.

La condizione umana infatti è comune. E il privilegio di chi vuol difendersi non solo dalla povertà, ma anche dalla sua percezione, è l’inganno di un giorno. Con ciò non voglio dire che l’Occidente è diventato cattivo, insensibile e cinico. La sua colpa non è nella sua accresciuta insensibilità e indifferenza per le sorti del mondo (questa semmai è la conseguenza non la causa). La sua colpa morale consiste nell’aver consentito che la povertà del mondo divenisse “smisurata”, perché, di fronte allo smisurato la nostra sensibilità si inceppa. Il “troppo grande” ci lascia indifferenti, non freddi, perché la freddezza sarebbe già un sentimento. E quando ci dicono che nel mare di Sicilia ancora una volta altri tredici disperati hanno perso la vita, il nostro sentimento si trova di fronte non a una tragedia, ma a una statistica, di fronte alla quale piomba in una sorta di analfabetismo emotivo. Questo analfabetismo, divenuto ormai nostra cultura, è peggiore di tutte le peggiori cose che accadono nel “non – mondo”, perché è ciò che rende possibile l’eterna ripetizione di queste terribili cose, il loro accrescersi e il loro diventare inevitabili.


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