«Ormai siamo una organizzazione. C’è un boss, cinque capidecina». In una conversazione intercettata sono loro stessi ad autodefinirsi come un’organizzazione criminale. E sono settanta le persone indagate nell’operazione Ghota della polizia sulla pirateria audiovisiva perché ritenute appartenenti a un‘associazione a delinquere transnazionale. I reati contestati a vario titolo sono associazione per delinquere a carattere transnazionale finalizzata alla diffusione di palinsesti televisivi ad accesso condizionato, riciclaggio, trasferimento fraudolento di beni, sostituzione di persona, possesso e fabbricazione di documenti di identificazione falsi, indebito utilizzo e falsificazione di strumenti di pagamento diversi dai contanti, danneggiamento di informazioni, dati e programmi informatici, accesso abusivo ad un sistema informatico, truffa, ricettazione, spaccio di sostanza stupefacente, omessa comunicazione delle variazioni del reddito o del patrimonio. L’indagine, partita dal centro operativo sicurezza cibernetica di Catania con il coordinamento della polizia postale di Roma, ha riguardato l’intero territorio nazionale.
Dalle investigazioni è emersa un’associazione organizzata in modo gerarchico, secondo ruoli distinti e ben precisi (capo, vicecapo, master, admin, tecnico, reseller), con capi erano distribuiti in varie città d’Italia (Catania, Roma, Napoli, Salerno e Trapani) e all’estero in Inghilterra, Germania e Tunisia. L’obiettivo sarebbe stato quello di distribuire a un numero incommensurabile di utenti palinsesti live e contenuti on demand protetti da diritti televisivi, di proprietà delle più note piattaforme televisive (Sky, Dazn, Mediaset, Amazon Prime, Netflix) attraverso il sistema delle Iptv illegali con profitti mensili per molti milioni di euro. Stando a quanto ricostruito, ci sarebbe stato un gruppo più ristretto – quello operante tra Catania, Roma, Napoli, Salerno e Trapani – che avrebbe costituito una sorta di gotha del mercato nazionale illegale dello streaming. Oltre a promuovere e dirigere l’associazione, sarebbero stati loro anche a decidere i costi degli abbonamenti, le sospensioni del servizio, le modalità di distribuzione dei dispositivi, coordinando i singoli operanti sul territorio nazionale.
Un’associazione che avrebbe agito per un lungo periodo e fino a oggi cercando di dirimere eventuali contrasti anche con azioni violente nei confronti di chi non si sarebbe adeguato alle direttive dei vertici e tenendo sempre un basso profilo. «Virunu ca tu t’accatti na machina all’annu, virunu ca ci spenni 50mila euro na machina nova, virunu ca t’accatti scappi di 300 euro… (Vedono che ti compri una macchina l’anno, che spendi 50mila euro per una macchina nuova, vedono che ti compri scarpe di 300 euro, ndr) determinate cose sinceramente non si devono fare, determinati atteggiamenti…quanto più puoi volare basso, devi farlo… io ho dovuto fare mettere a posto pure a mia moglie, che non ci va a lavorare per pulire i soldi». Diversi indagati, nonostante la conduzione di uno stile di vita particolarmente agiato, grazie ai proventi illeciti, sono risultati privi di reddito e di proprietà mobiliari e immobiliari; tale status ha permesso anche l’indebito percepimento di indennità di sostegno sociale.
Per comunicare tra di loro, gli indagati avrebbero usato applicazioni di messaggistica crittografata, identità fittizie e documenti falsi. Quest’ultimi sono stati utilizzati anche per l’intestazione di utenze telefoniche, di carte di credito, di abbonamenti televisivi e noleggio di server. In questa fase, l’indagine ha riguardato coloro che rivestono i ruoli apicali dell’organizzazione e i rivenditori dei pacchetti tv (reseller). Successivamente, si identificheranno i fruitori dei servizi illegali. Le indagini hanno preso avvio grazie agli spunti probatori di una precedente operazione della polizia postale di Catania (operazione Blackout), coordinata dalla procura distrettuale etnea, e dal monitoraggio della rete per il contrasto del cybercrime e in particolare della trasmissione illecita di segnali televisivi su reti informatiche basata su protocollo Tcp/Ip, ovvero le cosiddette Iptv (Internet protocol television).
Le prime indagini hanno fatto emergere la presenza su Telegram, in vari social network e in diversi siti di bot, canali, gruppi, account, forum, blog e profili che pubblicizzavano la vendita di accessi per lo streaming illegale di contenuti a pagamento tramite Iptv delle più note piattaforme. Intercettazioni telefoniche e telematiche, analisi informatiche, documentali, riscontri bancari, servizi di osservazione e appostamenti, hanno permesso di accertare l’esistenza di un’associazione finalizzata alla trasmissione illegale di contenuti multimediali a pagamento tramite Iptv illegale attraverso devices associati a più abbonamenti (attivati con dati fittizi) che erano connessi a internet con stesso Ip e trasmettevano per lunghi periodi singoli canali delle piattaforme.
Ingenti i guadagni illeciti ricavati da queste attività criminali: i profitti accertati solamente nei mesi di indagine ammontano a circa 10 milioni di euro, ma si ritiene che i danni per l’industria audiovisiva potrebbero ammontare ad oltre 30 milioni di euro mensili, considerato che l’operazione odierna ha fatto luce sul 70 per cento di streaming illegale nazionale pari a oltre 900mila utenti. Le città interessate dalle perquisizioni sono: Ancona, Avellino, Bari, Benevento, Bologna, Brescia, Catania, Cosenza, Fermo, Messina, Napoli, Novara, Palermo, Perugia, Pescara, Reggio Calabria, Roma, Salerno, Siracusa, Trapani, L’Aquila e Taranto. L’operazione si è avvalsa dell’ausilio del personale dei centri operativi sicurezza cibernetica di Palermo, Reggio Calabria, Roma, Bologna, Napoli, Perugia, Ancona, Pescara, Milano, Bari e Torino. Il flusso illegale delle Iptv è stato inibito agli utenti. Nel corso delle perquisizioni è stato sequestrato numeroso materiale informatico e dispositivi illegali per le connessioni e le attività di diffusione dello streaming.
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