Lo spettacolo “il Festino” – scritto e diretto da Emma Dante in scena dal 13 al 18 gennaio al centro ZO nell’ambito della rassegna Te.st del teatro Stabile – ti accoglie subito. Giù il sipario, appena entrati in sala lo spazio è addobbato a festa: un compleanno. Con striscioni e palloncini Emma ci invita già al sogno, ancor prima della fase REM.
Il sogno è un palco vuoto con al centro una scatola-lapide-altarino rossa di brillantini, poggiata su un tappetino-copritavola-stuoino contornato da luminarie natalizie che sbrilluccicano ad intermittenza. L’attore è in ginocchio di spalle, si svuota le tasche di piccoli oggetti, tasselli di memoria per raccontare la sua storia, e “prega”.
Paride, un ragazzo ritardato, compie trentanove anni e per l’occasione ci “invita” al suo racconto.
Parla del fratello gemello paraplegico, Iacopo, morto anni prima, “lui era la mente ed io il corpo”, parla di suo padre che li abbandonò giovanissimi e di sua madre che teneramente si prese cura di loro.
Emma, attraverso Paride, tesse il filo frastagliato della trama. Racconta il problema dell’altro (dell’altro da noi), abbozzando le sue efficaci dicotomie: Paride e Iacopo, il corpo e la mente, la madre e il padre, il femminino e il mascolino. Due diadi che s’intersecano continuamente sovrapponendo i loro chiasmi e il risultato dell’equazione a più incognite è sempre lo stesso. È una domanda: cosa accade nel rapporto tra noi e l’altro?.
Questa l’assiologia di Emma Dante nell’affrontare il tema della diversità, come scriverebbe Todorov.
La prasseologia invece è una scena onirica, il regno di Gaetano Bruno alias Paride, che in una mirabile esecuzione raccoglie applausi e commozione alla chiusa della quarta parete.
Gaetano con un linguaggio del corpo “a oltranza” grugnisce, si contorce, incespica con le membra e le parole, si avvoltola nella rimembranza narrativa e con la voce stridula di Paride si rivolge spesso al pubblico: “Te la posso dire una cosa?”. E te la dice, anche quando non parla, anche solo danzando. E danza, solo e con delle scope, sue inseparabili amiche di infanzia (“quante cose ci siamo dicevamo”) a cui il protagonista ha dato nomi, caratteri, anima; tutte invitate naturalmente al festino, “il party più bello della mia vita”.
Ma Paride non festeggia solo i suoi trentanove anni.
Il nodo del drama è una lettera ricevuta dal padre, “erano dieci anni che non si faceva sentire”. Chiede di Iacopo, ignorando la sua morte, “la prende ancora la pensione d’invalidità?”. Chiede del denaro e cerca di convincere Paride – “sei sempre stato il mio preferito…” – a mandargliene. Paride risponde alla missiva con ironia e mal celata tristezza: “[…] Sono Iacopo, Paride, il tuo preferito, è morto[…] Ti mando in questa scatola – invece del denaro – i vestiti che ha indossato al suo ultimo compleanno. Puzzano. […] Io oggi salto giù…”.
Così Paride si uccide e fa suicidare suo fratello nella lettera: al mittente non può che arrivare un peso sulla coscienza senza ricevuta di ritorno.
Così Paride uccide anche lo spauracchio del padre assente.
Così Paride getta un pugno di sementi su di noi, sui campi aridi delle nostre assiologie interiori. Getta un inno. Così Paride festeggia qualcos’altro. Festeggia la sua preziosa diversità.
“Io non ho bisogno di te, papà…”
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