Il coronavirus paralizza la China town di Sicilia Parlano i giovani cinesi: «Si rischia di chiudere»

«Questo blocco dei collegamenti dovuto al coronavirus è un problema per tutti, per la Cina e per l’Italia». Haihu Chen, 28 anni, e Shukun Michele Gao, 32 anni, parlano un fluente italiano e non vedono l’ora di trovarsi un giornalista davanti. Entrambi commercianti. Sono fra i punti di riferimento della neonata Associazione dei Giovani cinesi in Sicilia. Oltre cento aderenti, fra i venti e i trent’anni, e una roccaforte di relazioni e lavoro localizzata a Misterbianco. «Soltanto qui abbiamo contato circa 130 ingrossi gestiti da nostri connazionali, questa è la comunità cinese più importante dell’Isola», spiegano incontrando MeridioNews in uno dei capannoni della zona commerciale alle porte di Catania. Abbandonata dall’imprenditoria tricolore e, ormai da anni, trasformatasi in testa di ponte asiatica.


Il legame Italia-Cina è saldo e quantomai fruttuoso: «Ogni mese tantissimi commercianti cinesi o italiani viaggiano fra le due nazioni». Ma tutto si è già incrinato per la psicosi coronavirus, entrata nel Bel Paese sulle gambe di due turisti cinesi a Roma. «Ecco perché vogliamo lanciare un invito alla calma: non c’è pericolo e non ha senso bloccare tutto, rischiamo di fare crollare l’economia di tutti e due i paesi», ripetono Chen e Gao. Da oltre vent’anni in Italia, i due hanno ben chiaro che oggi serve comunicare: «Vogliamo creare un ponte, soprattutto fra i tanti cinesi che hanno difficoltà di linguaggio e gli italiani. Noi possiamo dare la voce al pensiero e fare capire come si muovono e cosa fanno i cinesi nel vostro paese». Bando alle vecchie diffidenze e ai luoghi comuni sulla «chiusura» delle comunità del dragone. «Facendo bene il primo passo, siamo convinti che anche quelli dopo non saranno sbagliati».

Ma oggi il problema è il virus. Come la gran parte dei cinesi d’Italia, i due giovani di Misterbianco provengono dalla provincia costiera dello Zhejiang. Cioè a più di mille chilometri da Wuhan, la città suo malgrado simbolo dell’epidemia. «In Cina stanno dando il massimo per contenere e risolvere il problema, ma tanta gente adesso ha paura di avvicinarsi ai cinesi». Questo si sta chiaramente ripercuotendo sugli affari in Italia, spiegano Chen e Gao, sia negli ingrossi che nei negozi al dettaglio e ancora di più nel settore della ristorazione. «Ma il panico non ha senso, le autorità sanno già cos’è il coronavirus e stanno cercando il vaccino. Se si sente tosse secca, raffreddore e influenza basta andare subito in ospedale, non aspettare». 

Secondo Chen, poi, il blocco dei voli è forse qualcosa più del dovuto. «Tanti negozi verranno chiusi, perché se blocchi il trasporto della merce e i clienti non vengono, non si può tenere aperto. Penso che aumentare i controlli negli aeroporti potrebbe bastare, lasciando alla gente la possibilità di scegliere se andare e tornare dalla Cina». Lo stop ai viaggi ha infatti effetti anche paradossali, dal loro punto di vista. La moglie di Michele, ad esempio, non può rientrare in Italia dopo essere andata a festeggiare il Capodanno cinese. «E poi ci sono molti di noi che sono italiani, hanno permessi e passaporti in regola, sono persino nati qui e non possono ritornare», sottolinea Chen. 

Da una parte, dunque, la preoccupazione per le conseguenze, sociali ed economiche, della chiusura dei collegamenti Italia-Cina e l’appello a «evitare paure immotivate». Dall’altra un occhio a quanto succede in patria. «In Cina sono finite pure le maschierine, vogliamo acquistarle qui per mandarle laggiù e dare aiuto alla popolazione e ai medici in prima linea. Stiamo cercando dei produttori che si mettano in contatto con noi».


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