I Siciliani sono mai stati Italiani? Ad equipararli il ‘Manifesto della razza’

Paradossalmente l’antisemita “Manifesto della Razza” equiparò i siciliani agli italiani

di Salvatore Musumeci

Nel settembre 1938, dalla residenza estiva di San Rossore, Vittorio Emanuele III promulgò le leggi razziali a seguito della pubblicazione del vergognoso Manifesto della Razza, apparso sul Giornale d’Italia il 15 luglio e su La difesa della Razza del 5 agosto dello stesso anno.

Il “Manifesto”, sottoscritto da un gruppo di sedicenti intellettuali, ebbe successivamente l’adesione di 392 autorevoli personaggi, tra cui Pietro Badoglio, Piero Bargellini, Renato Biasutti, Giorgio Bocca, Giuseppe Bottai, mons. Giovanni Cazzani, vescovo di Cremona, Luigi Chiarini, Galeazzo Ciano, Giuseppe Cocchiara, Gabriele De Rosa, Julius Evola, Amintore Fanfani, Roberto Farinacci, dott. Cesare Frugoni, Luigi Gedda, padre Agostino Gemelli, Giovanni Gentile, Rodolfo Graziani, Giovannino Guareschi, Mario Missiroli, Benito Mussolini, Romolo Murri, Paolo Orano, prof. Antonio Pagliaro, Giovanni Papini, Alessandro Pavolini, Camillo Pellizzi, mons. Giuseppe Maria Petazzi, Giovanni Preziosi, Enzo Santarelli, Ardengo Soffici, prof. Sergio Sergi, padre Pietro Tacchi Venturi (della Compagnia di Gesù), Achille Starace.

Paradossalmente, il punto 9 (di tale dissertazione scientifica): «Gli ebrei non appartengono alla razza italiana. Dei semiti che nel corso dei secoli sono approdati sul sacro suolo della nostra Patria nulla in generale è rimasto. Anche l’occupazione araba della Sicilia nulla ha lasciato all’infuori del ricordo di qualche nome; e del resto il processo di assimilazione fu sempre rapidissimo in Italia. Gli ebrei rappresentano l’unica popolazione che non si è mai assimilata in Italia perché essa è costituita da elementi razziali non europei, diversi in modo assoluto dagli elementi che hanno dato origine agli Italiani», equiparava – almeno sulla carta – i siciliani agli italiani; fermo restando, comunque, le diversità evidenziate al precedente punto 2: «Esistono grandi razze e piccole razze. Non bisogna soltanto ammettere che esistano i gruppi sistematici maggiori, che comunemente sono chiamati razze e che sono individualizzati solo da alcuni caratteri, ma bisogna anche ammettere che esistano gruppi sistematici minori (come per es. i nordici, i mediterranei, i dinarici, ecc.) individualizzati da un maggior numero di caratteri comuni…».

Era implicita, quindi, l’idea e il pregiudizio, che i siciliani fossero in qualche modo diversi dagli “italiani”, una popolazione a sé stante. Tanto che il generale Roatta, al quale il Duce aveva conferito pieni poteri militari, il 9 maggio 1943 emanò un proclama che concludeva in questo modo: «Strettamente fiduciosi e fraternamente uniti, voi fieri siciliani e noi militari italiani e germanici delle FF. AA. Sicilia, dimostreremo al nemico che qui non si passa».

Tale pensiero di antica matrice positivista (ben coerente con la nota “dottrina’’ di Cesare Lombroso) induceva a considerare diverse e quindi inferiori le popolazioni di un certo Sud “selvaggio”. Idee di tale natura erano presenti nella cultura del nazionalismo italiano assorbita dal fascismo. A dispetto del mito dell’italiano sempre buono e tollerante, non erano rare le inclinazioni razziste e una certa predisposizione all’intolleranza nei confronti della popolazione isolana.

Non ne erano stati immuni neppure i prodi garibaldini che nel 1860 avevano liberato la Sicilia dal Borbone. Giuseppe Cesare Abba, ligure della provincia di Savona, cronista delle gesta dei “mille”, aveva descritto a tinte fosche i siciliani, per i quali, evidentemente, non provava molta simpatia: «Montanari armati fino ai denti con certe facce sgherro, e certi occhi che paiono bocche di pistola», barbari e criminali, insomma.

Alla vigilia del primo Parlamento italiano, Cavour in una lettera a William De La Rive affermava che «Armonizzare il Mezzogiorno con il Settentrione d’Italia era impresa più difficili che avere da fare con l’Austria e con la Chiesa»; mentre il ministro Luigi Carlo Farini scriveva al Cavour: «Altro che Italia, questa (la Sicilia) è Affrica: i beduini a riscontro di questi cafoni, sono fior di virtù civile».

Nel 1876, la Giunta parlamentare d’inchiesta sulla Sicilia aveva così concluso le sue indagini sulla realtà isolana: «La Sicilia s’avvicina forse più che qualunque altra parte d’Europa alle infuocate arene della Nubia; in Sicilia v’è sangue caldo, volontà imperiosa, commozione d’animo rapida e violenta».

Questa visione mistificatoria, che attribuiva gli eccessi delinquenziali al «Retaggio delle razze meridionali», era in quel periodo (e lo è tutt’oggi) sicuramente funzionale all’obiettivo di distogliere l’attenzione di Roma dal fenomeno della mafia. Era meglio addebitare alle forze ineffabili della bestialità isolana la serie di reati che venivano commessi, piuttosto che dare al fenomeno mafioso la valenza politica che in realtà aveva.

Al fondo di un siffatto orientamento, c’era (e c’è) però anche un approccio culturale che vedeva la Sicilia come un luogo misterioso, abitato da gente dagli istinti animaleschi e dalle abitudini incomprensibili. Si insisteva nell’evidenziare gli aspetti esotici e barbarici dell’isola che i secoli – secondo quanto si riteneva – non sarebbero riusciti a modificare. Tutto questo, insieme, affascinava e incuteva timore.

La Sicilia era, dunque, la terra del brigantaggio, della prepotenza e del disordine, una realtà che non riusciva bene ad integrarsi col nuovo sistema statale di cui era entrata a far parte. Per i ceti dominanti del Nord, come del resto del Sud, anche i Fasci dei Lavoratori che si erano diffusi a fine 1800, erano apparsi soprattutto come intollerabili disordini provocati dalla più feroce plebaglia, da delinquenti camuffatisi da dirigenti politici, il cui intento sovversivo doveva essere punito con la repressione, voluta dal ministro Crispi (siciliano, sic!), manu militari.

È vero che poi il fascismo avrebbe, nel 1938, col “Manifesto della Razza”, incluso ufficialmente anche i siciliani nella razza ariana, equiparando, per legge, i meridionali ai settentrionali. Ma tale operazione, alla fin fine, non avrebbe fatto altro che legittimare le tesi circa le diversità biologiche tra i popoli, e quindi circa la pretesa superiorità di alcuni rispetto agli altri. C’era voluta una legge (seppure infame) per fare pienamente dei siciliani dei veri e propri italiani.

Ma la questione era (ed è) ancora aperta, come ben si ricava dal citato proclama del generale Roatta.

Oltre tutto, quando si pose la questione delle forze militari da destinare alla difesa della Sicilia, la decisione di utilizzare truppe siciliane fu considerata azzardata. Gli ufficiali reagivano sdegnati alle defezioni dei soldati che, chiamati a combattere una guerra che non capivano e non condividevano, preferivano aggrapparsi all’ideale del “tengo famiglia”, piuttosto che a quello della Patria.

Rilevanti, ad esempio, erano state le defezioni tra i fanti delle Divisioni “Assietta” e “Aosta” e i motivi della sconfitta, dal punto di vista di alcuni gerarchi fascisti, non potevano che dipendere dalla slealtà e dalla vigliaccheria peculiari dell’indole siciliana.

Oggi come ieri, nulla è cambiato. Quando nella nostra società civile si presenta qualche difficoltà economico-politico-amministrativa, scatta un meccanismo perverso: si scaricano i problemi su qualcuno, ci si inventa il nemico, che è il diverso, il più debole e subito i siciliani e la loro terra tornano ad essere il male dell’Italia.

E noi, che abbiamo civilizzato l’Europa, di contro, piangiamo e urliamo perché vogliamo a tutti i costi il “Ponte”… Ma quando la finiremo di fare i minchioni?

Salvatore Musumeci


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