«I Siciliani»: cos’è cambiato, cos’è perduto

E’ passata una generazione dal primo numero de “I Siciliani” eppure i temi che allora quei giornalisti avevano affrontato sono ancora oggi attuali, dall’ambiente alla giustizia, all’informazione. “Giustizia, mafia e poteri forti: cosa è cambiato, cosa è perduto” è il tema dell’incontro che si è svolto sabato scorso all’ex Monastero dei Benedettini.

“E’ cambiato molto. Molto nella forma, ma non nella sostanza” afferma Mimmo Fontana, presidente di Legambiente. “Oggi gli affari di maggior interesse – che incidono sull’ambiente – ruotano attorno ai termovalorizzatori e alla loro costruzione”. Il nuovo business della mafia sono diventati i rifiuti e le società che se ne occupano. “Si parla di un affare di circa 7 miliardi annui. Un altro affare redditizio sono i golf resort, come ad esempio quello di Sciacca. Sono chiamati “contratti di localizzazione turistica”, quelli che permettono alle varie società di accedere ai fondi pubblici. Il resort di Sciacca è costato 113 milioni di euro per costruire campi da golf ed un albergo di 500 posti letto. Oltre il 60% dei fondi di questi progetti imprenditoriali proviene dalle casse pubbliche. Viene da chiedersi se con la costruzione di questi resort, parchi di divertimento e via dicendo vi è realmente uno sviluppo turistico

“Venticinque anni dopo è cambiato il fatto che non esistono più “I Siciliani”, i quali erano un patrimonio di conoscenza e davano la possibilità di mobilitarsi. Quei pochi numeri della rivista di Pippo Fava bastarono a costruire un bagaglio di comune conoscenza. Oggi vi è la necessità di ricostruire questo comune sapere, forse un comune sentire, una comune volontà e capacità di reagire” dice Adriana Laudani, avvocato che – con i colleghi Vincenzo Scudieri e Fabio Tita – ha rappresentato la parte civile al processo dell’assassinio del giornalista Giuseppe Fava. Il cambiamento in meglio, secondo Laudani, vi è stato: è cambiata la cultura del popolo siciliano, ma non è ancora forte, si frantuma, perché non è riuscita ancora a diventare un sistema. “Non basta esserci, non basta volere, non è sufficiente fare” continua l’avvocato. “Ci vuole la determinazione della volontà di stare insieme”.

Antonio Ingroia, magistrato della Procura di Palermo, afferma che per quel che riguarda la mafia militare, dal ’82 ad oggi ci sono stati dei cambiamenti positivi. “Nel giro di due anni sono stati arrestati Bernardo Provenzano e il neo – boss Salvatore Lo Piccolo. E’ un chiaro segnale che la mafia non è più così potente come lo era quella corleonese degli anni Ottanta. L’arresto di Lo Piccolo è stato un grande successo, considerato che lui ha avuto l’intuizione di riallacciare i rapporti con la criminalità organizzata all’estero”. I rapporti che i mafiosi intrecciano sono di certo cambiati in questi anni; vi è stato un processo di integrazione tra la mafia e l’economia siciliana: “Un miscuglio tra l’economia legale e quella illegale”, afferma Ingroia.

“Sono passati ben venticinque anni: una generazione. Il gruppo de “I Siciliani” comunica con i giovani per quello che ha fatto, per quello che rappresenta. Il ricordo di questa esperienza mette in causa la generazione che ha partecipato. E’ tempo, però, di adoperare una memoria fredda” sostiene Luciano Granozzi, delegato dei Circuiti Culturali e docente dell’Università di Catania. “Un tema sicuramente da affrontare è lo snodo della qualità dell’informazione a Catania”. Il professore definisce il giornalismo operato da “I Siciliani” come advocacy journalism: “Questo tipo di giornalismo fatto dai “carusi” di Fava non assomiglia per nulla alla stampa antimafia. Erano capaci di fare una denuncia a 360 gradi, mantenendo una fortissima, se non una totale autonomia dalla politica”. La questione dell’informazione a Catania e del suo monopolio è, secondo il docente, una polemica stucchevole. “E’ per la qualità del giornalismo fatto in questa città che bisogna battersi. La qualità è bassa e sta portando inesorabilmente ad un degrado sociale, politico e culturale. Si deve insegnare ai giovani che il giornalismo non quello dell’ufficio stampa”. Non si deve fare soltanto denuncia, insomma, ma si devono anche porre le basi e creare i mezzi per cambiare questa condizione.

Claudio Fava, i cui interventi hanno fatto da filo conduttore durante tutto l’incontro, ribatte al professore Granozzi che il problema dell’informazione a Catania non è certamente il monopolio, ma la condizione di mercato monopolistico. “A Catania il problema è che non siamo di fronte ad un editore che non parla di mafia, ma ad un editore che parla di mafia solo in un certo modo. E lo stesso vale per la politica. In questa città non si devono raccontare alcune cose che interessano gli affari “non editoriali” di questo imprenditore”. Questo modo di fare informazione, secondo l’europarlamentare, incancrenisce la città etnea costringendola a rimanere imbavagliata.

Ad intervenire per ultimo è Nando Dalla Chiesa che definisce il problema dell’inespugnabilità dell’informazione a Catania come un malessere nazionale. “Negli anni ’80 le imprese, la politica, le università non c’erano. La lotta alla mafia la facevano le scuole perché erano diventate un sistema. A supporto vi era poi una piccola minoranza della stampa e l’opinione pubblica. Ci sono stati dei segnali positivi: basti pensare ai magistrati coraggiosi, ai giovani, all’opinione pubblica che si tassò per consentire alle famiglie delle vittime di mafia a costituirsi parte civile”. Per combattere la mafia è necessario agire in una logica di sistema.
Secondo lo scrittore, l’esperienza de “I Siciliani” è stata una delle più grandi nella Repubblica italiana: “Quando ti rendi conto che un 21enne riesce a dire determinate cose cinque – sei anni prima di un magistrato, ciò significa che queste cose erano visibili a tutti”.


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