Ho visto il film di Bellocchio

Ho visto il film di Bellocchio, Il regista di matrimoni, ma mi sembra di aver visto due film, una fiaba incastonata in un romanzo. La fiaba è bellissima, il romanzo mi lascia perplesso, raffredda il mio entusiasmo. La fiaba è affidata a due grandi attori, e vorrei dire soprattutto della donna che appare poco, ma è una presenza fortissima, intensa, profonda, dolce, severa, bellissima nella scena della chiesa, dell’incontro tra la principessa e l’artista, e poi… nella cripta dove l’artista rifiuta l’offerta d’un gesto d’amore… (perché? forse il romanzo ha il sopravvento sulla fiaba?).

La fiaba della bella principessa prigioniera nella villa dei mostri, addormentata per vent’anni in attesa dell’amore che la risvegli, dell’occasione per liberarsi da una prigione dorata, da un padre che forse l’ha tenuta al riparo dalle insidie del mondo, come Atlante che nel castello incantato teneva al riparo Ruggero… quello che giunge è un uomo in fuga dal suo ruolo di artista affermato, ora è come un giullare, compositore di epitalami, gioiosi, trasgressivi, dissacranti, un Ciullo d’Alcamo (la terra è quella) che va per le corti, nei feudi, a mettere a servizio dei signori  la sua arte, e come avveniva nelle corti, il giullare o il trovatore si innamora della bella castellana… La fiaba è raccontata con immagini splendide, il tema musicale aumenta la suggestione, e così pure l’inserto delle immagini in bianco e nero, leggermente sfocate, che variano il punto di vista e, indipendentemente dalla loro logica plausibilità (se ne hanno una), danno un tocco di magia. La fiaba ci dice di storie senza tempo, come tutte le fiabe, perché noi tramite loro, apriamo gli occhi sul tempo nostro, facciamo guidare il nostro sguardo dallo sguardo dell’artista, impariamo a rifiutare le immagini piatte che uccidono la fantasia, ci innamoriamo dell’idea della ricerca dell’oggetto d’amore, l’“inchiesta” dei cavalieri erranti, come liberazione dall’oppressivo medioevo che abbiamo ancora attorno.

Ma questa fiaba è inserita in una vicenda complicata, siamo impegnati a seguire l’intreccio con i suoi passaggi: c’è la faccenda dei guai legali del protagonista, c’è quella dell’altro regista che si finge morto e del premio a cui aspira, c’è come dicevo un “romanzo” che mi è sembrato alquanto farraginoso. Con questo “romanzo” penso che l’autore abbia voluto parlare della propria storia, della propria ricerca, abbia creato degli alter ego, e con grande sincerità e autoironia abbia voluto rappresentare la sua separazione dal proprio passato, forse anche la separazione da un’estetica che ha ancora nel romanzo ottocentesco, con la sua  greve struttura narrativa  e il suo carico di ideologia e moralismo, il proprio punto di riferimento, e questo ci viene mostrato col richiamo a quei Promessi sposi (romanzo, e poi film del 1941) da cui il protagonista si libera, o che sovverte,  quando trova la bella principessa.

Certo il congegno narrativo per cui l’autore Bellocchio sta dentro e fuori della storia, per cui, almeno in parte, per questo film si può usare l’antica formula “de te fabula narratur”, è ingegnoso, sapiente… ma mi piace pensare a questo aspetto del film come a un momento nel cammino di questo grande regista verso l’essenzialità, che ci regali l’intensità poetica-affettiva delle immagini che sa creare e ci trasmetta quanto ha riversato nelle forme della sua arte della ricerca non solo cinematografica, intendo quella dell’Analisi Collettiva, di cui è partecipe da quasi trent’anni.

Vincenzo Bonaccorsi

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