Hikikomori, i ragazzi che scelgono ritiro dalla società «Problema ancora sottovalutato. Importante parlarne»

Chiusi in camera, volontariamente, dalla vita, dai rapporti sociali. Sono gli hikikomori. In giapponese significa lasciarsi, staccarsi. Si tratta di una condizione che colpisce soprattutto i ragazzi adolescenti o ventenni. Un vero e proprio ritiro sociale, che non ammette pause o relazioni con l’esterno, né coi parenti più stretti. Il problema è abbastanza conosciuto in Giappone da oltre 30 anni. L’argomento, anche se con una certa lentezza, sta sensibilizzando esperti e famiglie italiane. In Italia sono circa 100mila i casi stimati. Il fenomeno hikikomori non è ancora riconosciuto come una vera e propria patologia, ma pian piano viene affrontato, grazie anche ai genitori che convivono o hanno affrontato il problema degli hikikomori. Una di queste è Marcella Greco, coordinatrice regionale di Hikikomori Italia, associazione che riunisce ragazzi e genitori. Greco fa capire come spesso questa condizione venga sopravvalutata o liquidata come un semplice status di sofferenza che viene facilmente confuso con altre cause. «Sono ragazzi con un quoziente intellettivo molto alto, un’etica molto sviluppata – afferma Greco ai microfoni di Direttora d’Aria, su Radio Fantastica Osservano le cose che gli altri ragazzi non notano e di queste cose si fanno carico e il mondo che li circonda non gli piace. Con la nostra associazione più che fermarci sulle cause andiamo a rilevare il disagio scatenante. Quando ci accorgiamo che smettono di vivere la quotidianità fino alla vera e propria rinuncia, questo può essere già un campanello d’allarme».

Ci sono voluti anni prima che l’argomento fosse affrontato. E, sebbene adesso si conosca il fenomeno degli hikikomori, ci sono ancora molti passi avanti da fare. «È un bene il fatto che se ne stia parlando – prosegue la coordinatrice – In molti casi viene confuso come qualcosa riferibile all’adolescenza ma è qualcosa che va più a fondo. Il fattore scatenante può essere un atto di bullismo, di violenza. Da quello che raccontano i genitori, il fenomeno comincia sempre allo stesso modo: il ragazzo comincia a star male: mal di pancia, il fisico non lo assiste. Così comincia a rinchiudersi in se stesso. Può capitare facilmente che tutto possa passare come una scusa». Riconoscere subito lo status e ricorrere ad alcuni provvedimenti in tal senso è molto importante. Come consiglia l’associazione, la prima cosa da fare è quella di mettersi a fianco dei ragazzi. «Nella nostra associazione abbiamo un gruppo di psicologi che ci insegnano come approcciarsi al fenomeno e le misure da intraprendere. Parliamo di ragazzi che escono solo per andare in bagno o che non riescono più nemmeno a sedersi a tavola. Il mangiare gli viene lasciato dietro la porta della camera: non stiamo parlando di ragazzi che stanno in salotto a guardare la Tv».

Una volta riconosciuto e affrontato il problema, si intraprende il percorso di guarigione. «Non possiamo sapere quando ci sarà la guarigione», specifica Greco. Ci sono stati casi di guarigione. «I ragazzi che ne sono usciti hanno creato dei gruppi e hanno collaborato per aiutare altri a guarire – conclude – Bisogna avere pazienza e nessuna pretesa. L’importante adesso è continuare a parlare del fenomeno». Giovanni Rapisarda, dirigente del reparto di Neuropsichiatria infantile all’Asp di Catania fa sapere come oggi, specie dopo il lockdown possono esserci degli strumenti che possono risultare fondamentali per l’approccio con gli hikikomori. «Non è ancora una malattia definita in una categoria ben precisa – spiega Rapisarda – Il ministero della Salute giapponese, per esempio, è intervenuto con delle linee guida per il riconoscimento di alcune terapie da applicare. Ci sono persone più a rischio per via di alcune condizioni caratteriali con situazioni esacerbate da bullismo o eccessiva interdipendenza dalle figure genitoriali. Uno dei primi campanelli d’allarme è il rifiuto a socializzare e ad andare a scuola».

I soggetti non sono facilmente avvicinabili. Ma ci sono degli strumenti per poter dialogare con loro e quindi instaurare un rapporto che potrà portare alla guarigione. «Durante il lockdown con alcuni di loro abbiamo stabilito un dialogo con gli stessi mezzi utilizzati dalla Dad – fa sapere Rapisarda – Parlare attraverso il computer può essere un cavallo di Troia per poter entrare in contatto con questi ragazzi. Se il soggetto non collabora bisogna prima iniziare dall’individuazione del disagio, passando da un processo di consapevolezza. La cosa paradossale è che sono iperconnessi col mondo attraverso diversi strumenti, ma allo stesso tempo – conclude l’esperto – Sono distanti dalle relazioni». 


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