L'indagine scattata alle prime luci dell'alba ha portato a 13 ordinanze di custodia cautelare e alla soluzione di 17 omicidi. Confermato il movente del delitto di Beppe Alfano, il giornalista ucciso nel '93: «Deciso dai vertici per proteggersi», dichiara il procuratore capo di Messina Guido Lo Forte. Guarda le foto e il video
Gotha 6, luce su 19 anni di mafia barcellonese Nulla si muoveva senza il volere delle famiglie
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C’è un’indagine aperta e totalmente segreta per arrivare ad altri risultati». L’indagine di cui parla il procuratore capo di Messina Guido Lo Forte è quella sull’omicidio del giornalista Beppe Alfano, freddato l’8 gennaio del 1993 «perché disturbava gli interessi e gli affari della mafia barcellonese». A confermarlo sono anche il generale di brigata Giuseppe Governale, comandante nazionale dei Ros, e il magistrato Eugenia Pentassuglia della Direzione nazionale antimafia, intervenuti alla conferenza stampa in cui sono stati i dettagli dell’operazione Gotha 6 scattata alle prime luci dell’alba di oggi.
Si tratta del sesto capitolo investigativo sulla mafia barcellonese, che fa luce su
17 omicidi e un tentato omicidio. Tredici, invece, sono le ordinanze di custodia cautelare in carcere notificate dalla Dda di Messina e dai carabinieri del Ros dei carabinieri. Dalle indagini è emerso come dal 1993 al 2012 niente veniva fatto se non espressamente deciso dai vertici mafiosi della città del Longano. Da qui la conferma che a decidere la morte del giornalista Beppe Alfano è stato il boss Giuseppe Gullotti. «Non riterremo completato il nostro compito se non proveremo a far luce su tutti gli aspetti, sia che attengono ai moventi che agli esecutori materiali di questo omicidio – dichiara Lo Forte -. Questo omicidio, come altri eccellenti, è stato deciso ai più alti livelli mafiosi della provincia di Messina ed è stato eseguito per proteggere l’organizzazione mafiosa dai rischi che l’attività di un giornalista come Beppe Alfano comportava».
Nelle parole del procuratore la consapevolezza che il percorso seguito in questi lunghi anni di indagini sta portando finalmente ai frutti sperati. Nelle pagine dell’ordinanza siglata dal gip
Giovanni De Marco viene cristallizzato il modus operandi di quasi un ventennio di mafia barcellonese. Con protagonisti uomini ed esponenti di primo piano della famiglia barcellonese, che magistrati e investigatori definiscono «una delle espressioni più temibili della mafia messinese, in grado di mantenere rapporti qualificati con Cosa nostra palermitana e catanese e con la ‘Ndrangheta». Tredici in tutto i provvedimenti scattati. Dieci di questi notificati in carcere ad Antonino Calderone, 27 anni, Tindaro Calabrese, 41 anni, Domenico e Salvatore Chiofalo, 30 anni e 26 anni, Salvatore Sem Di Salvo, 50 anni, Carmelo Giambò, 44 anni, Giuseppe Gullotti, 55 anni – già condannato a trent’anni come mandante dell’omicidio di Alfano -, e ancora Aurelio Micale, 37 anni, Giovanni Rao, 55 anni, Carmelo Trifirò, 41 anni. Ancora in libertà e arrestati oggi Nino Calderone, 28 anni, di Barcellona, Pietro Mazzagatti, 56 anni di Santa Lucia del Mela, e Angelo Caliri, 49 anni, anche lui di Barcellona ma finito in manette a Bruxelles.
Tra gli episodi contestati agli indagati anche il
triplice omicidio di Sergio Raimondi, Giuseppe Martino e Giuseppe Geraci uccisi a Barcellona il 4 giugno 1993. I tre sarebbero stati puniti per aver commesso dei furti senza l’autorizzazione dell’organizzazione locale. Ma anche omicidi per il rispetto della gerarchia interna, come quello del boss Domenico Tramontana ucciso il 4 giugno 2001, perché voleva togliere di mezzo l’allora boss dei mazzarroti Carmelo Bisognano, poi diventato collaboratore di giustizia. E ancora i delitti di Carmelo De Pasquale o Nunziato Mazzù. A contribuire alle indagini, sono state anche le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Nunziato Siracusa, Santo Gullo, Franco Munafò, i fratelli D’Amico, Salvatore Campisi e Alessio Alesci.