Giovani e imprevedibili dietro al racket delle bionde «Non guarda mai niente, minchia quello un pazzo è»

«Giovà ti vedo morto. Che hai? Ti scanti?! Ti dissi mettiti un giubbotto, un fasciacollo». E poi ci sono «i guanti», fondamentali, quelli non bisogna dimenticarli mai, per nessun motivo in nessuna rapina. Piccoli accorgimenti, ma che possono fare, o meglio, avrebbero potuto fare la differenza e permettere ai componenti della banda delle bionde, finiti ieri dietro le sbarre con l’operazione Commando, di salvare la pelle. Misure che avevano importanza soprattutto per chi la faccia ce la metteva sul serio e che negli assalti, riusciti e non, agiva in maniera diretta. Sono undici in tutto, mentre al vertice, secondo quanto emerso dalle indagini dei carabinieri, ci sarebbero stati altri due componenti, Cesare Unniemi e Alessandro Cannizzaro, entrambi con precedenti per rapina, che però non agivano direttamente.

Tra quelli che non si tirano indietro, alcuni sono molto giovani e imprevedibili, secondo il quadro emerso grazie alle intercettazioni telefoniche e ambientali. Come Giovanni Puccio, che di anni ne ha solo 23. «Giovà cosa ti diciamo noialtri, fai! Se per caso arrivi a fare qualcosa malamente, attummuliamu! Noialtri ti passiamo i cartoni – di sigarette – e tu prendi solo quelli che ti passiamo. Non toccare il furgone! Faccelo toccare a noialtri». È severo il monito di Giuseppe Garofalo, anche lui tra gli indagati coinvolti nel blitz, classe 1990. Sarebbe uno di quelli, lui, che a ruota, si dà il cambio con gli altri sodali a bordo del furgone su cui caricare la merce rubata. Il suo ruolo all’interno dell’organizzazione è quasi sempre lo stesso: individuare un luogo sicuro e defilato in cui proprio il camion del commando avrebbe dovuto aspettare, posteggiato, l’arrivo di quello di tabacchi, un luogo in cui sarebbe poi avvenuto il trasferimento della refurtiva e l’abbandono degli ostaggi di turno.

«Allora uno se ne va cu iddu, tu t’imbarchi con il pollo», dice ai compagni non sapendo di essere intercettato. «Io devo scendere il primo di tutti». E all’indirizzo degli altri della banda, esordisce con un suggerimento: «Compà, levala qualche stecca di sigarette! Avanti, ieri io una stecca ne ho preso, Marlboro. E ce la dividiamo io, tu, Giovanni. Qua…mi spavento se salgono i sbirri di Misilmeri. Minchia, sono cornuti e sbirri!». Ed è sempre lui, registrato nelle intercettazioni ambientali dei militari, che dispensa indicazioni strategiche sulle modalità di alcuni colpi: «Siamo messi male. Se non c’era quella macchina prima, ci dovevamo mettere là, perché se vengono da qua non vedono a noialtri. Noi li vediamo, ma loro no a noi – dice a un complice -. E quando usciamo carichi, ci devi lasciare alla punta, ti rallenti, noi scendiamo e ti passiamo, appena ti suono, tu insegui a noi, dobbiamo entrare a Villabate. Compà, lì dentro devi girare al volo. Ou, e non mi chiamare per nome!», è la raccomandazione finale.

Nella banda, secondo il quadro emerso dalle indagini, ci sarebbe stato anche il fratello Andrea Garofalo, anche lui, come Puccio, classe 1994, detto u malatu, per via della sua andatura claudicante. Le intercettazioni di lui rivelano soprattutto l’assoluta disponibilità nei confronti del sodalizio criminale e dei sodali. Il suo incarico è spesso quello di seguire il tragitto del furgone scelto come bersaglio, in genere viaggiando a bordo di scooter rubati. Il più grande dei giovanissimi della banda, infine, è il 28enne Fabio Alvaro Algeri, soprannominato u pollo, per i militari è uno di quelli che fa parte del sottogruppo che mette in atto la rapina e, a bordo di un’auto rubata ogni volta diversa, ha il compito di fermare il furgone porta tabacchi mettendosi di traverso lungo la strada costringendolo così a fermarsi. Non manca mai, del resto, ai briefing mattutini della squadra, come quello al bar Splendore di via D’Aosta, immortalato il 30 novembre 2016 dalle riprese delle telecamere di sorveglianza.

«Non guarda mai niente! Minchia, quello un pazzo è!». Lo descrive così Garofalo senior, parlando con gli altri sodali. Ma non guida solo il furgone, Algeri. Spesso è anche alla guida di una vecchia Lancia Ypsilon color celeste metalizzato, alle prese con i pedinamenti dei furgoni da depredare. Una volta fermato, confessa alcuni furti, compreso quello del furgone Daily usato per concludere i colpi e portare via il carico di sigarette, appartenente a un altro membro della banda, Vincenzo Oliva. Una confessione «posticcia», secondo i carabinieri, per tentare di coprire il compare di banda. «Lo sai dove la prendo nel culo, Pierì?! Nel sequestro di persona. Il fatto che abbiamo sequestrato all’autista – si sfoga a colloquio in carcere col fratello -. Dovevo essere con loro! Se io me ne vado con loro, iu un’attummuliu. Attummula sulu u camion». Uno sfogo che diventa amaro, nel constatare, a confronto anche con la madre e la convivente, che il resto della banda non aveva fino a quel momento dato nessun aiuto economico ai suoi da quando lui era finito dentro. «Noialtri campiamo a te e iddi mi devono campare a me!», si lamenta la compagna. «Sono sette! Nessuno si è visto?», domanda ancora Algeri. «Fanno schifo, uno con l’altro, fanno schifo!», chiosa infine sua madre. 


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