Si destreggia fra archivi, cimiteri, atti, carte e fatture per restituire alla memoria quanto è stato di queste persone che non sono mai riuscite ad arrivare vive qui e che oggi riposano sotto lapidi senza un nome. «Il mio percorso universitario non era destinato ad arrivare qua, però forse lo ero io»
Giorgia Mirto, la palermitana che (rac)conta i migranti morti «Non è un mero calcolo, ma un modo per farli sopravvivere»
«Le frontiere uccidono». È molto più di un semplice titolo quello scelto dal Forum Antirazzista Palermo per la giornata di commemorazione dedicata ai migranti rimasti vittime della traversata in mare verso l’Europa. «Vittime dei nostri muri e delle nostre frontiere», ribadiscono gli organizzatori, che chiamano a raccolta i cittadini questo sabato alle 12, al Campo 220 del cimitero dei Rotoli di Vergine Maria. Un momento di preghiera laica e interreligiosa per ricordare i tanti morti rimasti senza un nome, senza una storia. «Oggi ci ritroviamo in una situazione in cui neanche sappiamo quante persone potrebbero avere perso la vita nel tentativo di fuggire da una realtà di partenza terribile. Vogliamo dare visibilità a una realtà nascosta, poco conosciuta da gran parte della cittadinanza». C’è qualcuno, però, che di risalire in qualche modo alle storie di chi non ce l’ha fatta ad arrivare vivo c’è. È la giovane studentessa palermitana Giorgia Mirto, che di loro raccoglie inaspettati particolari e dettagli che vanno alla fine ben oltre la statistica e il mero conto di questi morti. «Io non identifico salme, quello che faccio è raccogliere dati», dice subito.
«Non sono un’anatomopatologa, ma un’antropologa. Mi occupo di capire come e dove sono catalogate le informazioni sulle persone che sono sbarcate in Italia, specie sulle salme». Perché tra i problemi di cui soffre il Paese ci sarebbe, secondo lei, proprio la mancata centralizzazione dei dati, significa che «se c’è una famiglia che cerca un proprio caro disperso non sa materialmente dove andarlo a cercare, non c’è un ufficio, un ente, un qualcuno preposto. O, meglio, ci sarebbe, ma ci sono anche una serie di difficoltà che non contribuiscono a svolgere questo tipo di lavoro in maniera idonea». Cosa fa, quindi, Giorgia? «Io cerco informazioni». Lo fa dividendosi tra i cimiteri e gli uffici di Stato civile, vero posto depositario di queste informazioni, perché non solo redigono l’unico atto effettivamente pubblico, cioè l’atto di morte, ma tengono anche una serie di altri dati: certificati prodotti dalla polizia, dai medici legali, un archivio in tutti i sensi insomma. Che Giorgia comincia ad apprezzare in occasione del suo primissimo lavoro per conto dell’università di Amsterdam, nel 2011.
«Ero, e sono tuttora, una militante di partito che mi ha portato a lavorare in uno sportello di assistenza per migranti al Laboratorio Zeta di via Boito». È in questo contesto che quell’anno va a Lampedusa, a documentare quella che all’epoca in molti definiscono un’«invasione» di migranti. Va a toccare con mano, a guardare coi propri occhi e a raccontare tutto poi attraverso brevi interventi sul giornale Liberazione. È così che un professore olandese la nota e decide di contattarla proponendole di partecipare a un progetto pilota: capire se fosse possibile contare le persone morte in mare e capire quali informazioni effettivamente rimangano di queste salme, utili ai fini identificativi. «Ho iniziato così», racconta. E dopo due anni di lavoro, un’altra telefonata da parte del professore olandese, che questa volta le annuncia che la rilevanza di quanto fatto aveva permesso di ottenere dei finanziamenti (non italiani) per ampliare il lavoro, e farlo in tutta l’Italia e la Spagna, la Grecia, Malta e Gibilterra. «Abbiamo iniziato a fare questo database, adesso consultabile online su Border Deaths. Sono andata personalmente in tutta la Sicilia, nella Sardegna del sud, in Puglia, in parte della Calabria e nelle città portuali, cercando notizie di questi migranti morti e dei loro atti di morte».
È da qui che parte il secondo step del progetto cui è diventata, in poco tempo, la colonna portante. «L’università di York mi ha assunta per una ricerca, Mediterranea Missing, sullo studio delle procedure di identificazione delle salme e su quali fossero le richieste dei familiari dei migranti dispersi», racconta ancora. Anche se il suo lavoro non si è mai rivolto nello specifico a queste famiglie, però di fatto in mancanza di un ente che funga da interfaccia un qualche contatto c’è stato, anche se questo è un aspetto più vicino al lavoro svolto dai mediatori culturali. «Il mio percorso universitario non era desinato ad arrivare qua, però forse io lo ero – dice -. È qualcosa nelle mie corde». Alla base c’è anche una passione per la ricerca documentale, a fondamento di quello che fa tutti i gironi: «Non si deve immaginare come qualcosa di noioso, non sono un topo di biblioteca. È un lavoro attivo e utile per la società. In pratica, si può dire che risolvo piccoli misteri».
Destreggiarsi tra atti, carte, fatture e qualunque cosa contribuisca a tirare fuori un’informazione su un migrante che non c’è più, non è cosa da poco. «Cerco tra le fatture delle pompe funebri e parlo molto col responsabile del cimitero, che mi permette di scoprire ad esempio che in un caso alcune salme sono state impilate una sopra all’altra in una fossa che non è segnata. Un tipo di informazione che nessun altro può avere, anche perché nessuno sta facendo questa ricerca a tappeto. E che io ho avuto la possibilità di fare grazie ai finanziamenti del fondo olandese e poi con quello inglese». Non c’è l’Italia, quindi, in questi contributi. «Qui nessuno ha avuto molto interesse per quella che era nata come una ricerca statistica e che si è poi affacciata su storie più concrete, non è un mero calcolo della mortalità». Un lavoro enorme, faticoso, certosino, che porta avanti da sola e che le permette di restituire, in parte, quanto accaduto a questi uomini che oggi non ci sono più. Di poter dire, banalmente, a una famiglia «che quella persona è sepolta qui, ai Rotoli, in una tomba a parete in questo preciso posto e che una vecchietta ormai vedova che frequenta il campo santo ha deciso di dare dei vestiti alla salma, in modo tale che sia vestita bene nella bara, accendendo un lumino davanti al quale andare a pregare».
Altro che meri numeri, davvero. C’è enormemente di più dentro al lavoro di Giorgia Mirto. Un di più a cui, però, Palermo negli anni sembra aver mostrato a poco a poco interesse. «Da parte del Comune, e non intendo solo il sindaco Orlando ma anche i dipendenti comunali, sono stata molto aiutata nella raccolta dei dati. E alcuni segnali sono arrivati anche dalla società civile – racconta -, qui c’è una forte attività di associazioni antirazziste che prima di me, con me e dopo di me, non solo riconoscono questo lavoro ma mi considerano anche un interlocutore, e fanno attività di commemorazione delle salme come fossero dei loro morti». A fare la differenza, in tutti questi anni, è stato però il profondo senso di responsabilità che la giovane studentessa palermitana, unica depositaria di queste informazioni, prova: «Faccio in modo che si sappia cosa è accaduto, che di quella persona possa sopravvivere qualcosa alla morte stessa, almeno nel ricordo dei propri cari».