Gela, inizia il processo contro Eni per i danni ambientali «Amministrazioni pubbliche sono intimidite da colosso»

«Eni deve risarcire il territorio» è una frase che a Gela si è sentita spesso. Pronunciata ad esempio dalla classe politica che l’ha interpretata per farsi finanziare dal cane a sei zampe strade, campetti, dighe. Decine di famiglie hanno però scelto un’altra strada. Hanno portato in giudizio l’Eni promuovendo un’azione risarcitoria da 50mila euro a testa. Non solo per le patologie da industrializzazione riscontrate ma anche «per la lesione del diritto costituzionale alla salubrità dell’ambiente», come spiega l’avvocato Emanuele Maganuco che ha avviato il procedimento in sede civile.

Alla prima udienza presso il tribunale di Caltanissetta, sul banco degli imputati non c’erano solo l’Eni e le altre società del gruppo (Raffineria di Gela spa, Enimed, Syndial spa) che hanno operato all’interno dell’ex petrolchimico e poi ex raffineria di Gela. A essere chiamati in causa c’erano anche il consiglio dei ministri, il ministero dell’Ambiente, la Regione, l’assessorato regionale Territorio e ambiente, il libero consorzio comunale di Caltanissetta, il Comune di Gela, l’Arpa Sicilia, la protezione civile e l’Ispra. Sotto accusa dunque non solo le aziende del cane a sei zampe per le condotte commissive, ma anche e soprattutto le condotte omissive dei vari enti pubblici che non hanno adeguatamente vigilato su quel che avveniva negli impianti gelesi. E colpevoli di non aver rispettato, sempre secondo l’avvocato Maganuco, «leggi nazionali e normative comunitarie che gli imponevano una serie di condotte di fatto mai poste in essere». 

Il giudice Andrea Gilotta ha rinviato l’udienza al prossimo 30 novembre, in modo da poter inserire le nuove richieste di parti civili. Sul tavolo del legale gelese le richieste di adesione all’azione risarcitoria negli ultimi giorni si sono fatte sempre più numerose. Almeno un centinaio, secondo le prime stime. Prima del rinvio c’è stato però il tempo di venire a conoscenza delle eccezioni processuali sollevate dai convenuti. Erano presenti in quanti ritualmente costituiti: il consiglio dei ministri, l’Eni e tutte le sue consociate, l’ex Provincia di Caltanissetta e, con costituzione tardiva, il Comune di Gela. 

«Quello che accomuna tutti – osserva il legale gelese – è il difetto di legittimazione passiva. Nessuno dovrebbe stare in questo giudizio. Il consiglio dei ministri sostiene che attraverso la dichiarazione dello stato di emergenza rifiuti per la Sicilia nel 1999 ha soddisfatto compiutamente il proprio obbligo giuridico di intervento a tutela della salute e dell’ambiente nel territorio di Gela». In pratica coi poteri straordinari conferiti alla Regione fino al 2013 in tema di rifiuti i soli responsabili, secondo il governo nazionale, sarebbero i governi siciliani succedutisi fino ad oggi. Anche il libero consorzio, e prima provincia, di Caltanissetta ha chiesto di essere estromesso dal giudizio in quanto avrebbe compiuto tutto ciò che era in suo potere. Ovvero un sistema di monitoraggio e campionamento dell’aria, anche utilizzando fondi europei, e di avere eseguito, insieme alle forze dell’ordine di Gela, alcuni sopralluoghi e controlli in merito alle bonifiche che le società private dovevano realizzare. 

La linea difensiva del Comune di Gela si è invece incentrata sull’emanazione di alcune ordinanze a tutela della salute pubblica nel corso di 50 anni di presenza industriale. Nonché di essersi costituito, come parte offesa, negli ultimi procedimenti in sede sia penale che civile che hanno riguardato i dirigenti locali dell’Eni e delle aziende ad essa consociate. «Una circostanza risulta disarmante – commenta Maganuco -. Le società convenute hanno sostenuto in giudizio di non aver inquinato nel corso di questi decenni e giungono a inserire nelle proprie difese stralcio del noto protocollo d’intesa siglato nel 2014 e volto alla creazione della famigerata Green Refinery. Quel che amareggia e sorprende le famiglie che hanno intrapreso questa causa – continua il legale – è che nessuna delle amministrazioni pubbliche costituitesi in giudizio ha puntato il dito nei confronti dell’operatore privato che ha inquinato: il responsabile del disastro ambientale. Non una parola – conclude Maganuco – su chi ha inquinato e deve pagare. Il cane a sei zampe ha ancora il potere di intimidire».


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