Francesco De Gregori – Calypsos

Il ritiro nella casa di Spello, tra l’Umbria e le Marche, ha sortito gli effetti sperati: venti giorni di raccoglimento e lavoro forzato nella piccola sala d’incisione privata hanno infatti portato alla realizzazione di Calypsos, un piccolo capolavoro, assolutamente inatteso.

Nell’ultimo ventennio il cantautore ha inciso, in media, un disco ogni quattro anni: possiamo parlare quindi dell’ultimo arrivato come di un evento; ma non è solo questa la ragione per cui si parla di evento: De Gregori è uno di pochi capace di mantenere fedele il pubblico storico e, allo stesso tempo, vedere realizzarsi tra i fan un ricambio generazionale. Un cantautore a trecentosessanta gradi, insomma, in grado di far convergere ai suoi concerti tre generazioni distinte.

Calypsos vede la luce dopo meno di un anno dal precedente lavoro ma, nonostante ciò, basta un ascolto per rendersi conto della peculiarità che lo caratterizza e della meticolosità con cui ogni brano è stato curato e arrangiato. Sonorità acustiche (nostalgia di Rimmel, forse?), testi disimpegnati (dimenticate La ballata dell’Uomo Ragno, di craxiana memoria) e un’attenzione particolare rivolta al passato; eppure sarebbe un sacrilegio parlare di ritorno alle origini: più che una riscoperta degli esordi, Calypsos appare come una presa di coscienza della propria maturità artistica. Non più ritmi ispirati al rock, ma sonorità più accorte e meditate, non più contenuti impegnati, ma poesia fine a se stessa, in tipico stile browniano, non più partecipazione, ma contemplazione.

La tracklist prevede come prima traccia Cardiologia, melodiosa e da brividi, seguita da La linea della vita, intrigante quanto coinvolgente. A seguire: la piccola perla La casa, L’Angelo (la più ritmata tra le nove tracce incluse nell’album) e la suggestiva In onda. Mayday costituisce l’eccezione, rappresentando un ritorno al rock energico. Per le strade di Roma ci introduce nei meandri più intimi del cantautore, prima che L’amore comunque ristabilisca il tema dominante dell’intero album. Chiude Tre stelle, brano allegro ma non all’altezza del resto dell’album.

Alla fine dell’ascolto l’impressione è che la musica prodotta sia sentita interiormente, ma anche suonata e arrangiata nel migliore dei modi. Un album, in poche parole, che l’autore doveva e voleva fare, nato dal cuore e, proprio per questo, ben riuscito, seppur senza il supporto di imponenti effetti speciali.

Michele Agresta

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