I giudici del tribunale di Messina spiegano perché l'ex deputato è stato ritenuto responsabile nel processo Corsi d'Oro. Con lui sono stati giudicati colpevoli altre 22 persone, compreso il cognato ex parlamentare Franco Rinaldi. Nel dispositivo della sentenza si sottolinea l'uso personalistico degli enti rivolti ai giovani
Formazione, i motivi della condanna di Genovese «Ente usato per avere consenso elettorale e soldi»
«L’ente di formazione è, per un verso, un imponente bacino cui attingere consenso elettorale e, per un altro, lo strumento per appropriarsi di denaro pubblico». Le parole sono quelle utilizzate dai giudici della prima sezione penale del tribunale di Messina, Silvana Grasso presidente, Massimiliano Micali e Maria Pina Scolaro, per spiegare le motivazioni della sentenza Corsi d’Oro2, il processo conclusosi a gennaio 2017, con 23 condanne. Tra esse quella a undici anni per Francantonio Genovese, l’ex parlamentare del Pd poi transitato in Forza Italia, e del cognato Franco Rinaldi, per il quale i giudice hanno deciso una pena a due anni e mezzo.
Al centro del processo, con l’accusa retta dai magistrati Sebastiano Ardita, Fabrizio Monaco, Liliana Todaro e Antonio Carchietti, parte dei «rilevantissimi flussi di denaro pubblico» destinati alla formazione di giovani disoccupati per acquisire specifiche competenze da spendere nel mondo del lavoro. «Detti contributi avrebbero, invero, costituito oggetto degli appetiti criminali della gran parte degli odierni imputati – scrivono i giudici -. Costoro, in altri termini, si sarebbero attivati per rivolgere a loro esclusivo vantaggio, attraverso l’adozione di meccanismi truffaldini, parti rilevanti di dette risorse».
La successiva disamina dei giudici passa in rassegna il sistema formazione in Sicilia, strutturato con l’organizzazione di corsi di formazione professionale da parte di enti e strutture privati, senza scopo di lucro, con costi interamente a carico della collettività (Unione europea, Stato, Regione). Come sottolineato dai giudici «il procedimento registra la storia di una sistematica quanto capillare depredazione di risorse pubbliche attraverso un meccanismo criminale nel quale l’ente di formazione (in particolare l’Aram e la Lumen), depauperato della funzione che in teoria ne avrebbe dovuto guidare l’azione, «è divenuto il canale per garantire l’arricchimento di pochi». Per i giudici, Genovese e gli altri avrebbero usato il tutto come «ghiotta occasione per aggredire le sovvenzioni regionali e rivolgerle a vantaggio di coloro che degli enti stessi avevano acquisito il dominio».