Un cambio di sezione rischia di mettere in pericolo il processo per disastro ambientale e gestione di discarica non autorizzata all'interno dell'ex facoltà di Farmacia. Il presidente Ignazia Barbarino - che lascia la terza sezione penale - potrebbe garantire la propria presenza solo per un'udienza al mese, raddoppiando i tempi del procedimento fino al rischio della prescrizione. L'alternativa potrebbe essere la nomina di un nuovo collegio che dovrebbe cominciare quasi da zero
Farmacia, prescrizione o tutto da rifare? Cambio nel collegio, processo a rischio
Continua il processo per disastro ambientale e gestione di discarica non autorizzata all’interno dellex facoltà Farmacia di Catania, che rischia però una brutta battuta d’arresto. Per un cambio di sezione del presidente del collegio Ignazia Barbarino sono due le strade che potrebbe prendere il procedimento: la prescrizione o la scelta di un nuovo collegio. Il giudice Barbarino – lasciando la terza sezione penale – potrebbe garantire la presenza per una sola udienza al mese invece della attuali due. Tempi che si raddoppiano, in una fase dibattimentale che deve ancora vedere salire sul banco un centinaio di testi. Un processo già di per sé consistente che corre sul filo della beffa estrema della prescrizione. L’alternativa sarebbe un cambio che però azzererebbe tutto il lavoro finora svolto. Un problema non da poco per il pubblico ministero Lucio Setola e gli avvocati delle parti civili, seriamente preoccupati di vedere il lavoro di questi anni compromesso.
Eppure l’udienza di ieri ha concentrato l’attenzione su un punto centrale: la consapevolezza dei vertici del dipartimento e dell’Ateneo catanesi che all’interno dell’edificio due della Cittadella ci fosse un’anomalia giudicata grave. Grazie alla testimonianza di Anna Maria Resi, dipendente amministrativo del dipartimento di Scienze del farmaco, segretaria e autrice dei verbali in molte delle riunioni organizzative della commissione creata per vigilare sulla sicurezza. Il suo ufficio si trova nel piano superiore ai laboratori del seminterrato e la donna non ha difficoltà a ricordare la sensazione di bruciore alle labbra e gli strani odori in punti diversi dell’edificio. Segnalazioni e lamentele di malesseri di vario genere non mancavano mai. Cenni del problemi venivano fatti già in un verbale del 2000 che conteneva anche la sollecitazione ai responsabili dei laboratori a far rispettare le norme di sicurezza. La riunione successiva presa in esame è del 2004. Quattro anni nei quali il problema non era stato individuato né tanto meno risolto. Ma proprio in quell’anno si inizia a rivolgere l’attenzione a sifoni – descritti in una relazione come «vecchi, obsoleti e pericolosi» – e cappe di aspirazione.
La svolta arriva nel giugno 2005, con una lettera inviata tramite il direttore amministrativo Antonino Domina al rettore dell’epoca, Ferdinando Latteri, morto un anno fa. Un documento importante e per certi versi drammatico, nel quale non si fanno più ipotesi di un possibile inquinamento, ma in cui i vertici del dipartimento dichiarano di non sapere quanto l’ambiente sia dannoso, tanto da non sentirsi di assumere ulteriori responsabilità. Un carteggio rimasto privato, mai diffuso tra i ricercatori, i tecnici di laboratorio, gli studenti. Un anno dopo, nel marzo 2006, viene istituita la commissione di sicurezza, «un gruppo operativo che si interfacciasse con l’amministrazione centrale». Nello stesso mese il rettore convoca una riunione – un evento non ordinario, ha spiegato la contabile – alla quale però Latteri non prende parte. Il verbale finale – corretto da uno dei cinque componenti della commissione, Fulvio La Pergola – contiene le indicazioni dei lavori da svolgere che riguardano le cappe, gli scarichi fognari e la bonifica dei locali del seminterrato.
Più volte durante l’esame il pm Setola ha cercato di capire se la situazione incerta destava preoccupazione. Anna Maria Resi ha ribattuto sempre di non essere eccessivamente preoccupata, perché «uscendo passava tutto», rassicurata anche dalla presenza dei colleghi che non mostravano eccessiva inquietudine. «Sa se i miei assistiti – Francesco Paolo Bonina, Giovanni Puglisi e Giuseppe Ronsisvalle – hanno problemi di salute?», ha chiesto nel controesame l’avvocato Pietro Nicola Granata, ricevendo dalla teste una risposta negativa. Su un tasto simile batte anche Enrico Trantino, legale di Fulvio La Pergola, che chiede se qualcuno dei docenti coinvolti aveva manifestato l’intenzione di andare via dal dipartimento. Aggiungendo anche che i figli di Ronsisvalle e Franco Vittorio in quel periodo lavoravano all’interno del laboratorio.
Un innaturale silenzio è calato al momento della domanda di Santi Terranova, avvocato di alcuni famigliari delle presunte vittime. «Cosa hanno in comune Emanuele Patanè, Giovanni Gennaro, Agata Annino, Maria Concetta Sarvà?», ha chiesto il legale. Visi noti, persone incrociate quasi ogni giorno in quei corridoi. «Non ci sono più», ha risposto con un filo di voce la dipendente, riportando per qualche attimo la mente sugli effetti che quel presunto disastro ambientale in quella presunta discarica non autorizzata ha su quanti ogni due venerdì al mese siedono sulle stesse sedie, nella stessa aula, ad attendere giustizia. Eppure, come ha affermato la donna, fino all’apertura ufficiale delle inchieste nessuno ha mai ufficialmente messo in relazione quelle morti improvvise con i problemi ambientali. Nemmeno dopo aver assistito – dentro lo stesso dipartimento – al malore che ha portato al coma e alla morte Maria Concetta Sarvà. Nemmeno dopo la riunione di quella commissione che aveva il compito di vigilare, avvenuta qualche giorno dopo il funerale di Agata Annino.