Faccia a faccia col giornalista dell’anno

Capita di trovarsi a Ischia al termine di una serata dal sapore agrodolce e di fermarsi in una pizzeria. La prima che si incontra sul corso. L’idea è di fare takeaway, ma di fronte alla gentile insistenza del proprietario, “Se volete c’è una saletta interna”, accettiamo ed entriamo.
Non capita tutti i giorni però di alzare lo sguardo dal menu e trovarsi di fronte i vincitori delle varie categorie del Premio Ischia: il trio Travaglio-Gomez-Corrias, Ilaria D’Amico, Mario Calabresi. Accompagnati da alcuni organizzatori della serata.
 
Mandato giù l’ultimo boccone, ci facciamo coraggio e avanziamo. “Direttore, scusi l’intrusione. Ce la concede un’intervista?”. Mario Calabresi, il più giovane direttore de La Stampa, rimane per un attimo spiazzato, preso in contropiede da una richiesta più detta che ascoltata. “Sono distrutto…”“Solo poche domande”. È andata.
 
Il direttore si alza, abbandona l’allegra compagnia e viene a sedersi al nostro piccolo tavolo. Nonostante il quasi metro e novanta non mette soggezione. Sensazione strana: sembra di conoscerlo da una vita. Lo sguardo è paziente, la voce profonda e sicura.
 
Stasera ha ricevuto il Premio Ischia come miglior giornalista dell’anno. Da qualche anno è anche scrittore. Come vive il doppio ruolo?
Onestamente non uso un metodo diverso. Certamente gli articoli sono più veloci e immediati, meno approfonditi perché non si ci può lavorare per giorni come sul capitolo di un libro.
Però io non ho fatto un inseguimento, non ho pensato che fare lo scrittore significasse cercare un altro metodo di scrittura, quindi cercare di essere più sofisticati o ricercati. In entrambi i casi ho messo sempre al centro il lettore ed ho sempre pensato che la cosa fondamentale fosse cercare le parole più semplici, più chiare e lineari. Descrivere le cose come sono.
 
Da qualche mese è direttore de La Stampa. Che difficoltà ha il direttore di un giornale a parlare di politica in Italia in momenti come questi?
Il problema della politica italiana e dei giornali deriva dal fatto che talmente ormai il Paese è in perenne scontro e polarizzato in una divisione forsennata che qualunque cosa uno scriva, anche cercando di fare semplicemente cronaca, viene immediatamente criticato a destra e sinistra. Perché se non è un ultrà di destra viene considerato comunista, o viceversa. Uno dei primi giorni da direttore mi è capitato di ricevere nello stesso minuto due email: una diceva che ero un servo di Berlusconi e che avevo piegato la schiena, un’altra diceva che ero stato mandato da Repubblica per colonizzare e conquistare La Stampa e farlo diventare un giornale di comunisti.
 
Quanto è difficile per un direttore rimanere anche giornalista?
Se un direttore non rimane giornalista si perde. A me manca la libertà e il movimento che avevo prima. Il fatto che seguivo una storia e non avevo orari. Adesso ho tante regole e appuntamenti che mi tengono bloccato. Adesso viaggio attraverso gli altri, attraverso le persone che mando nei posti.
 
“Spingendo la notte più in là” è una testimonianza straordinaria degli anni di piombo. Una ricostruzione di quel periodo dal punto di vista delle vittime del terrorismo. Eppure la maggioranza dei giovani non conosce quel decennio. Perché non adottare il suo libro nelle scuole o nelle università?
Ci sono delle scuole che lo fanno. Io sono stato invitato a Messina, Bari, Sondrio, Brescia a parlare con classi di liceo che avevano letto il libro. È vero anche che non si arriva quasi mai a studiare a scuola gli anni ’70 ed è incredibile che un ragazzo abbia un’idea della prima guerra mondiale e non di qualcosa che è successo 20, 30 anni fa. Ho voluto scrivere questo libro proprio per questo. Ho pensato che chi è nato l’anno della strage di Piazza Fontana quest’anno compie quarant’anni; quindi tutti quelli che hanno fino a quarant’anni non hanno una memoria diretta dell’inizio della stagione degli anni di piombo. Metà degli italiani non sanno, la memoria storica si sta perdendo. Ma se vado in una libreria e cerco tra gli scaffali materiale per informarmi, trovo solo libri scritti da ex terroristi. C’è quindi il rischio che i ragazzi che vogliono sapere si facciano un’idea solo leggendo quei testi.
 
Meglio quindi che gli ex brigatisti non scrivano libri o articoli su giornali nazionali?
Io non penso che gli debba essere proibito di scrivere; ognuno, dopo aver scontato la sua pena e uscito dal carcere, può fare la vita che crede. Non penso però che sia sano che ci sia solo la voce e il punto di vista di ex terroristi. Non volevo riscrivere la storia, ma dare un altro punto di vista perché uno potesse farsi anche un altro tipo di idea.
 
Che consiglio dà ai giovani che vogliono intraprendere la strada del giornalismo?
Di studiare tanto e di specializzarsi in qualcosa. Di fare delle scelte: le lingue straniere, l’economia, la scienza. Troppe persone pensano che per fare giornalismo basta saper scrivere, che si può essere generalisti e scrivere di tutto. Per chi vuole scrivere così la rete è piena di possibilità, ognuno può aprirsi un blog, un sito, può scrivere twitter o dove gli pare qualsiasi cosa e di qualsiasi dimensione. Nel futuro la differenza la faranno le persone capaci di spiegare le cose, persone competenti, capaci di fare analisi, dare chiavi di lettura e spiegare a chi legge il senso di quanto è accaduto.


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