Ettore Scola, un regista di pianura

Maestro del cinema italiano e regista di fama internazionale, Ettore Scola ci ha regalato capolavori come “Brutti, sporchi e cattivi“ (1976), commedia dolceamara delle borgate romane, con  Nino Manfredi; poi la storia semplice e poetica, ma anche commovente di  “Una giornata particolare” (1977) con Loren e Mastroianni. Nel 1980 Scola tira le somme della commedia all’italiana ne “La terrazza”,  amaro bilancio di un gruppo di intellettuali di sinistra in crisi, con Ugo Tognazzi, Vittorio Gassman, Jean-Louis Trintignant e Marcello Mastroianni. Firma i copioni dei capolavori “Il sorpasso “(1962) e “I mostri” (1963). E molto altro ancora.

Il senso di riscatto e di adattamento sembrano investire i suoi personaggi perché il cinema di Ettore Scola ha un suo rigore e una sua particolare delicatezza: ha un sottotesto di raro fascino e i suoi personaggi non sono mai vaghi, ma spigolosi, ben delineati, a volte anche malinconici, tuttavia sempre spontanei. E attuali.

Perché sembrano sempre attuali i suoi film?
«Alcuni film, non solo i miei, non invecchiano perché i tanti temi affrontati nel tempo restano insoluti: per esempio l’intellettuale depresso che non collabora per niente e che andrebbe aborrito…».

Lei è andato in Palestina. Ci ritornerebbe per raccontare l’impegno e il disimpegno di quella terra?
«Sì, anche se cercando di capire l’uomo si capisce che l’uomo stesso non cambia. Un discorso di oggi tra il giusto e l’ingiusto è uguale a un discorso di ieri
».

Cosa legge Scola?
«La vita di Plutarco è una lettura piacevole, e che insegna molto, come Topolino».

Lei ha consigliato ai giovani di non mitizzare questo mestiere. Chissà, però, quanti la contattano e le chiedono di essere messi alla prova perché si sentono adatti per fare questo lavoro. Cosa risponde loro?
«Di studiare intanto, di arricchirsi di opere teatrali e di letture, e di costruirsi una propria identità soprattutto se ancora si è nella fascia tra i quindici e i venti anni».

La lezione che ne ricaviamo è che ancora abbiamo bisogno del cinema dallo sguardo lucido di Scola, di cui molti giovani e meno giovani continuano ad essere i sostenitori. Perché ha abbandonato?
«Ho settantasette anni, non è giusto intestardirsi quando si va oltre l’età: il mestiere del regista è duro e richiede una certa tempra fisica. Si rischia come certi miei colleghi di fare delle figuracce».

Per il film “L’età dell’innocenza”  la costumista Gabriella Pescucci vinse il premio Oscar. Cosa significano i costumi per un regista?
«Parecchio, ma per fortuna in Italia, rispetto ad altri Paesi, c’è più attenzione. Ci vogliono collaboratori geniali tra scenografi e costumisti, che abbiano un’ottima conoscenza del copione e che riescano a sentire ciò che gli spettatori sentiranno».

Lei ha la dote di saper disegnare, lo si è visto alcuni anni fa nel giornale umoristico “Marc’Aurelio”. Riusciva a disegnare ciò che le serviva per la scenografia?
«Qualche personaggio, qualche ambiente e soprattutto qualche corridoio (non so perché ma li preferivo!). Anche per telefono disegno, per colmare la noia della conversazione».

Tra i suoi attori preferiti?
«Vittorio Gassman che aveva questa corazza di sicurezza e di volontà che in realtà nascondeva un bel po’ di fragilità: adeguato a rappresentare certi ruoli; Mastroianni che in ogni film, mio o di Fellini, aveva personalità completamente diverse…».

E’ giusto che gli attori si adattino. Non trova che troppi registi scelgano attori dalla personalità simile al personaggio da interpretare? Così non si rischia di intaccare l’arte della recitazione?
«No, non sono d’accordo. Se ad un attore non gli appartiene un ruolo perché lo dovrebbe interpretare? La recitazione non è una performance che può trasformare qualunque cosa. Un attore serio dovrebbe dire “questo personaggio non mi interessa” oppure “non lo faccio” soprattutto se pensa di non poterlo arricchire con i suoi mezzi». 

Cioè l’attore deve accettare solo ciò che gli va a genio?
«Sì, e credo inoltre che ogni attore debba avere la coscienza di che cosa sa fare e di che cosa vuole fare per perseguire quei ruoli».

Oggi i giovani però fanno fatica a dire di no.
«Oggi ci sono più ingerenze, più obblighi da parte dei produttori».

Lei ha detto di aver fatto lo sceneggiatore per quindici anni prima di essere approdato alla regia. Perché?
«Per me è importante la sceneggiatura prima di qualsiasi altra cosa: tutto parte da lì».

Quanto ha contato la “commedia italiana”, o degenerata in “commedia all’italiana”, nel modo di fare cinema?
«L’Italia, con tutte le sue involuzioni, si identifica col passato, ma tutti capiscono che il passato è presente. Non mitizzerei la commedia ma il Neorealismo di cui è figlioccia, oggi però la commedia è più disimpegnata. Nonostante ciò, non si possono che fare film impegnati politicamente – come “Si può fare” o “Gomorra”, che ispirano senso di giustizia – perché l’uomo è un animale politico».

Ha vinto molti premi, medaglia d’oro ai benemeriti della cultura e dell’arte. Per la particolarità del suo cinema – che è quella di lasciare spazi di riflessione autonoma al pubblico nei quali ognuno può trovare se stesso, i propri sogni, desideri, pulsioni e delusioni – è considerato uno dei maestri del cinema italiano. Cosa ne pensa dello stato di salute del cinema contemporaneo, decadente?
«Non parlerei di decadenza quanto di cicli in cui non si produce niente di memorabile».

Nel film “La terrazza” c’è una scena in cui si assiste ad un congresso del Pci. Il film è stato favorito dal partito?
«No, anzi allora il partito si arrabbiò molto del fatto che passò un’immagine depressa, borghese dell’intellettuale di sinistra».

Le hanno dedicato una retrospettiva. Ama guardarsi indietro?
«No».

Si rimprovera qualcosa?
«Sì, tutto. Per usare una metafora sono stato una bella pianura, dissodata. Le montagne, però, non le ho raggiunte».


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