Nato a Caserta nel 1981, interpreta il protagonista della serie tv Gomorra. Marco D’Amore è l’immortale Ciro Di Marzio, esponente della criminalità organizzata napoletana. Un personaggio cult nella fiction italiana che ha battuto tutti i record, inventando un nuovo modo di scrivere e recitare per la televisione. «Dico sempre che i paesaggi, al cinema, sono gli occhi degli attori», racconta D’Amore a MeridioNews a margine della sua partecipazione a Etna comics 2017, al centro fieristico Le Ciminiere di piazzale Rocco Chinnici. Una lunga chiacchierata per parlare della violenza di certe scene, ma anche delle prospettive per il futuro, del teatro e di quella volta che One day di Asaf Avidan diventò la colonna sonora di uno dei momenti più importanti dell’intera serie.
Cosa pensi delle eccessive reazioni del pubblico, soprattutto sui social, in base agli avvenimenti che in Gomorra hanno scosso per la loro eccessiva brutalità?
«Questa è una terra di opera lirica e nel passato la lirica popolare scatenava le passioni del pubblico. Questo non ha a che fare né con la bassezza né con l’ignoranza della gente, ha a che fare con l’identificazione, con il racconto. Ed è anche affascinante quale oggetto di indagine. Naturalmente se tutto ciò dovesse sfociare in episodi che travalicano il buon senso c’è da mettere un freno. Sono stato accusato anche io. Quando, nella prima stagione, mi toccò interpretare una scena molto cruda che poi raccontava il reale, cioè l’uccisione di Gelsomina Verde. Una ragazzina che nulla aveva a che fare con la criminalità organizzata, la cui unica colpa era quella di essere entrata in contatto con un giovane affiliato: è stata poi uccisa. Implacabilmente mi è piovuto il mondo addosso. Il nostro compito però è capire quanto possa essere necessario, per esigenze di trama e di onestà verso gli spettatori».
Come ti vedi dietro la macchina da presa?
«Mi interessa molto stare dietro, scrivere, produrre e dirigere. L’avventura della scrittura è arrivata grazie alla Sperling & Kupfer che ha saputo di un film che avevo scritto insieme a Francesco Ghiaccio, su un tema molto caldo, quello della fabbrica di eternit di Casale. Ha voluto leggere la sceneggiatura e ci ha chiesto di scrivere un romanzo, perché solitamente è dai romanzi che escono i film, un processo inverso».
Gomorra ha di sicuro alzato l’asticella del livello qualitativo medio delle serie in Italia. Secondo te è una cometa o l’inizio di una nuova generazione di serie tv ad alto standard?
«Secondo me Gomorra, ancora più che qualitativamente, ha cambiato il modo di fare produzione. Ha un broadcaster che è una rete, che ha affidato l’esecutivo a una produzione e che ha scelto un co-produttore straniero. È una serie che ha deciso per certi aspetti di seguire il modello americano. Affidare la lunga serialità a un regista/direttore artistico che fosse affiancato da altri registi non si era mai visto in Italia. La prima stagione contava tre registi e la seconda addirittura quattro. Sempre innovando si è scelto di non selezionare i nomi per i ruoli ma gli attori per i personaggi, rompendo un po’ le logiche del mercato. Ha rappresentato di sicuro uno spartiacque, c’è un prima e un dopo Gomorra. Ben venga quindi una sana competizione che permetta poi in fondo di migliorare il livello qualitativo medio».
Nel tuo passaggio da teatro al piccolo e grande schermo, in cosa hai notato un tuo cambiamento come attore?
«Secondo me sono due mestieri tanto diversi, tutti e due hanno in comune che l’attore debba lavorare tanto su se stesso. La macchina da presa ti impone un lavoro di misura, molto più introspettivo e intimo. Dico sempre che i paesaggi, al cinema, sono gli occhi degli attori. A teatro gli occhi non li vedi nemmeno, c’è una necessità di amplificazione, di una presenza che poco ha a che fare con il mestiere: è qualcosa di magico, tellurico, se vogliamo chimico. L’interazione è vera, in corso tu puoi cambiare la tua recitazione in base al tuo pubblico, sera per sera. La bravura di un attore in questo caso è la capacità anche di saper gestire i mezzi che si trova di fronte».
Parliamo di musica, visto che i tuoi primissimi studi artistici sono stati in quell’ambito. Nella prima scena assoluta di Gomorra canticchi una canzone della colonna sonora della serie. Quante di queste canzoni sono realmente presenti nella tua playlist e cosa ti piace di più ascoltare nei periodi di riprese?
«Sono un divoratore di musica e sono onnivoro, ho dei gusti abbastanza eterogenei. Rispetto a Gomorra però voglio raccontarti un episodio divertente: stavo girando un camera car, all’interno del veicolo ero insieme a Salvatore Esposito e Stefano Sollima e in un momento di pausa ho messo il pezzo di Asaf Avidan One day. Stefano ascolta il pezzo e lo registra con Shazam dicendo solamente “Bello questo pezzo, non lo conoscevo”. Un anno dopo lo ritroviamo in una delle scene più importanti della serie, senza che il regista ci avesse detto nulla. A quel pezzo sono legato proprio perché mi racconta sempre di una parte molto importante per me in Gomorra».
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