Una legge sul trattamento di fine vita? Qualcuno voleva approvarla in tre giorni, in occasione del caso Englaro. Ma poi i riflettori si sono spenti e il vuoto normativo è rimasto. E oggi? A fare il punto della situazione, ad Acireale, sono il padre di Eluana e alcuni esperti di diritto e bioetica
Eluana, quando la morte non è un tabù
Sarebbe stata una legge ad personam, una legge costruita sull’onda del coinvolgimento emotivo su una vicenda tragica, una legge del solo parlamento e non dei cittadini, quella sul trattamento di fine vita. In Italia se ne parla da 16 anni. Ad Acireale sabato si è provato a fare il punto della situazione, nel teatro della chiesa S. Paolo, con un incontro dal titolo “Il valore della vita”. A raccontare la sua esperienza Beppino Englaro, con l’intervento di rappresentanti del mondo del diritto, della bioetica e della medicina: Ignazio Maria Marino (docente di diritto amministrativo all’Università di Catania), Salvino Leone, presidente dell’istituto di bioetica Salvatore Privitera di Palermo, il medico friulano Amato De Monte e Antonino Gullo (direttore dell’Unità di Anestesia e Rianimazione del Policlinico catanese), che tesse le fila del dibattito.
«Mia figlia è stata vittima sacrificale di un conflitto di poteri all’interno delle istituzioni» afferma subito Beppino Englaro, padre di Eluana. In Italia da anni si abbozza il testo di quello che chiamano testamento biologico, ma il polverone che suscita l’argomento è sempre stato diligentemente nascosto sotto il tappeto. Finché, nel febbraio del 2009, è stato il presidente del consiglio Silvio Berlusconi a chiedere una legge che in tre giorni “salvasse la vita” alla ragazza di Lecco.
La storia di Eluana la racconta il padre, con voce ancora tremula e incerta quando sono i ricordi a farsi strada, con tono sicuro e coraggioso quando la sua testimonianza diventa una battaglia civile. E’ una storia che conosciamo, perché le telecamere sono entrate in casa della famiglia Englaro nel 2009, quando in quel salotto di Lecco tutti reclamavano una poltrona per poter dire la loro: dai cattolici, ai politici dei vari schieramenti, all’opinione pubblica, ai medici, agli esperti di bioetica. Accanto al letto di Eluana, però, c’erano solo il padre e la madre, da 17 anni. Da quando, nel 1992, un incidente stradale condusse la ragazza ad uno stato di coma vegetativo che divenne persistente. «Era una ragazza forte, indipendente e piena di vita, ma per lei la vita era libertà, non una condanna. I medici le hanno offerto le cure migliori, ma sono certo che lei avrebbe detto “no grazie”». La morte non era un tabù in famiglia, la posizione della ragazza era chiara. «Mi sono ritrovato senza un interlocutore, come un randagio che abbaia alla luna, e hanno deciso per lei. Ma chi ha deciso?» si chiede Beppino Englaro.
«Ha deciso il diritto», commenta Ignazio Marino. La risposta è arrivata dopo 15 anni e 9 mesi dalla Corte di Cassazione che, nel 2007, si è pronunciata a Sezioni Unite, stabilendo l’interruzione della nutrizione artificiale cui era sottoposta Eluana. Il docente catanese definisce quella del massimo organo giurisdizionale, una sentenza storica. «Una sentenza che abbatte gli steccati tra cittadino e istituzioni, che valica i confini dello Stato, perché mette al centro del suo giudizio l’uomo». Ma parlamento e governo si sono opposti alla decisione della Corte, ottenendo il plauso del Vaticano e scatenando un conflitto istituzionale senza precedenti. Si è fatto di tutto per mettere in piedi in tre giorni una legge “salva Eluana”, come fu definita dallo stesso presidente del consiglio. Dal Quirinale non arrivò però la firma al decreto legge, e il consiglio dei ministri andò avanti con un ddl per imporre la nutrizione e l’idratazione artificiali ai soggetti non autosufficienti. Un teatrino interrotto solo dal silenzio di un cuore che cessa di battere: Eluana morì dopo soli tre giorni dall’interruzione della terapia, a Udine, per insufficienza cardiaca. «I politici non vogliono concedere a nessuno, se non a loro stessi, il primato della legge – va avanti Marino – Si tratta di una legge non per i cittadini, ma a favore delle lobby delle grandi strutture sanitarie. A decidere non dev’essere dunque il parlamento, ma la giurisprudenza vivente, il singolo caso che diventa precedente», conclude.
«La legge è un fatto secondario, è più importante la responsabilità della decisione» commenta Salvino Leone. «L’etica ha bisogno di pensare, di analizzare così come stiamo facendo noi, di capire se volontà suprema è quella del paziente». Leone sostiene, inoltre, che i contrasti tra medicina e religione siano una montatura mediatica. Per esempio, il codice deontologico medico all’art. 37 recita che “in caso di compromissione dello stato di coscienza, il medico deve proseguire nella terapia di sostegno vitale finchè ritenuta ragionevolmente utile”. E il catechismo della Chiesa Cattolica, all’articolo 2278, afferma che “l’interruzione di procedure mediche onerose, pericolose, straordinarie o sproporzionate rispetto ai risultati attesi può essere legittima. In tal caso si ha la rinuncia all’«accanimento terapeutico». Non si vuole così procurare la morte: si accetta di non poterla impedire. Le decisioni devono essere prese dal paziente, se ne ha la competenza e la capacità, o, altrimenti, da coloro che ne hanno legalmente il diritto, rispettando sempre la ragionevole volontà e gli interessi legittimi del paziente”. «Basterebbe dunque il dialogo tra scienza e diritto per evitare sterili contrasti», afferma Leone.
«Il ruolo del medico qual è?» si chiede Amato De Monte, il medico che attuò il protocollo che accompagnò alla morte Eluana. De Monte spiega che lo stato vegetativo in natura non esiste e che il medico deve interrompere ogni trattamento che si riveli sproporzionato, impedendo qualsiasi “aggressione terapeutica”. Il vortice mediatico che lo ha travolto lo ha addirittura additato come carnefice di Eluana Englaro. «Ma se io sono l’assassino, commenta rassegnato, il mandante è la Corte di Cassazione?»
L’ultima parola è lasciata a Beppino Englaro che afferma con forza che «la vera libertà è solo dentro la società, anche se non è semplice vedere la propria figlia impiegare 17 anni per morire».