Donne, madri e lavoratrici nella Sicilia del 2016 Mila Spicola: «La collettività va ancora educata»

«Essere donna in Sicilia è una disgrazia e una fortuna allo stesso tempo». Ne è convinta Mila Spicola, insegnante siciliana e consulente tecnica del Miur, esperta in studi di genere. Dal mondo del lavoro all’abbattimento degli stereotipi, nel 2016 per una donna, siciliana per giunta, la strada sembra essere ancora tutta in salita.

Quali sono le difficoltà maggiori che incontra una donna nel mondo del lavoro?
«In relazione al gap di genere siamo messe davvero male: intanto per il fattore salariale, ma non solo. Perché se tu fai l’impiegata, il salario è quello. Ma il problema è l’accesso alle professioni più remunerative. Cioè, è più facile che una donna faccia l’insegnante anche se è laureata in astrofisica, piuttosto che faccia l’astrofisica. Per questo alla fine si adatta a quello che trova, quando lo trova».

Senza parlare dei servizi offerti a chi intende coniugare la maternità con il lavoro. Pensiamo ad esempio agli asili nido pubblici. Qual è la situazione?
«Praticamente non ce ne sono. Se si considera che la media è del 35-40 per cento in Emilia e qui a livello regionale siamo fermi all’8 per cento, è chiaro quanto sia serio il problema. Per non parlare delle scuole che offrono il tempo pieno. Quante sono? Anche questo si ripercuote sul futuro lavorativo della donna siciliana, soprattutto se è anche mamma. L’offerta formativa per l’infanzia è forse uno dei più grossi divari tra Nord e Sud, dove la maternità è un fatto assolutamente femminile, perché è la donna a rinunciare al lavoro. Tutto questo comporta sempre minori tassi di natalità al Sud, dove le coppie giovani alla fine decidono di crearsi una famiglia altrove».

Come invertire questa tendenza?
«Il quadro può essere modificato soltanto attraverso il percorso formativo dei bambini e delle bambine. Nella legge 107 c’è un comma sull’educazione di genere finito al centro delle polemiche. Il senso di quel comma è proprio questo: capire come la scuola possa educare al rispetto dell’altro. Fornire al bambino e alla bambina la consapevolezza del valore di se stessi, far capire come gli stereotipi li trasmettiamo in maniera inconsapevole».

Possiamo fare un esempio?
«Chi ha detto che le bambine sono meno predisposte verso le tecnologie? Vogliamo arrivare a ragazze che scelgono un istituto superiore industriale o un liceo socio-psico-pedagogico soltanto in base alla loro predisposizione. La storia di Samantha Cristoforetti, in questo senso, trasmette molto più di quanto troveremo scritto nei manuali. Nulla da togliere, però, alle principesse, o a un personaggio come Violetta. Il problema è l’assenza di pluralismo, non il fatto che esistano quei modelli».

E, crescendo, spesso la situazione non migliora. Perché, secondo lei, ancora oggi per una donna è così difficile denunciare la violenza domestica subita?
«La società italiana è molto matriarcale. Di fronte all’uomo, che sia un fidanzato, un marito o un fratello, la donna tende a essere madre, esattamente come l’uomo tende a essere figlio. Resiste ancora un senso di vergogna nel confessare di essere vittime di abusi, di violenze, per cui la donna non ha una rete attorno. E poi c’è la diffidenza nei confronti delle forze dell’ordine. È un lavoro lento, ma piano piano si sta formando una nuova sensibilità».

Torniamo così alle nuove generazioni.
«Le differenze di genere si possono eliminare solo se educhi alla prevenzione. Se vivi il tuo genere come una gabbia, perché anche l’idea di virilità maschile è una gabbia, le conseguenze prima o poi arrivano. Ma se il gesto del singolo va punito, la collettività va educata. Se portiamo avanti una scuola diversa, costruiremo una società sempre più pari».


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