Giunto al sesto anno di mandato, il sacerdote di Santa Chiara traccia un bilancio della propria esperienza. E smitizza alcune narrazioni su Ballarò. Dalla legalità, che «non può essere imposta se prima non ci si impegna sul territorio», all'integrazione. «Non c'è solo il razzismo degli italiani verso i migranti, ma anche quello tra le etnie»
Don Enzo Volpe, prete sociale del quartiere Albergheria «Abbandonati per consentire lo spaccio free e low cost»
Chi lo conosce bene lo definisce «l’uomo più alto di Palermo, in tutti i sensi». Lui è don Enzo Volpe, parroco all’opera salesiana di piazza Santa Chiara e giunto al sesto anno di mandato. Conosce ogni strada del quartiere dell’Albergheria, le tante etnie che lo popolano e i tanti problemi, spesso atavici, che lo attraversano. E all’incontro di martedì alla chiesa san Giovanni Decollato, dove si è tracciato un bilancio e una riflessione sull’antimafia sociale in occasione del quarantesimo anniversario delle attività del Centro Impastato, don Volpe ha lanciato l’allarme sul consumo sempre maggiore di droga. «Siamo di fronte a un quartiere volutamente abbandonato dalle istituzioni – è la denuncia del prete -. Lo scopo è quello di far rimanere l’Albergheria una sacca free e low cost dello spaccio. Qui si consuma sempre più droga, dal crack all’eroina agli acidi. È per questo che il quartiere è tenuto a regimi bassi. Persino i ragazzi dei licei Croce e Regina Margherita, le nostre scuole, tornano qui nel pomeriggio e di sera per consumare droghe».
Ripercorrendo i suoi trascorsi, il sacerdote lascia trasparire che quello che sta per cominciare potrebbe essere il suo ultimo anno ecclesiale a Palermo. «Ho cominciato subito coi ragazzi difficili – racconta – con quelli di san Gregorio e poi nel quartiere san Cristoforo, a Catania, per tre anni. Successivamente ho avuto anche esperienze di docenza presso la cosiddetta Catania bene, e in seguito è arrivata l’esperienza al Santa Chiara del quale ringrazio il Signore. Ho trovato realtà già avviate, sia all’oratorio che all’asilo». E se i numeri di chi frequenta gli spazi sono aumentati, per don Volpe la ragione è da ricercare nell’assenza di «altri spazi aggregativi. Attualmente i ragazzi sono circa 140, ma i numeri non sono importanti. Quel che è importante invece è, per esempio, l’ausilio dei volontari coi quali abbiamo recuperato tanti di loro dalla dispersione scolastica».
Inevitabile, se si parla dell’Albergheria, fare il punto della situazione sul mercato storico di Ballarò. E qui il prete spiega che, pur essendo «l’unico che resiste, non c’è una vera volontà di recuperarlo. Vogliamo o no riprendere il regolamento unico dei mercati?». Quella della ripresa dei mercati non è l’unica narrazione che don Volpe smitizza. Pur confermando che il modello di integrazione a Ballarò viene continuamente perseguito, il sacerdote segnala che «non c’è solo il razzismo degli italiani verso i migranti, ma anche tra di loro. I migranti tra loro non possono vedersi, per esempio quella tra nigeriani e gambiani è un’integrazione al ribasso». E lo stesso discorso vale per la retorica della legalità, specie quando rimane imposta ed estranea alle dinamiche del territorio. Il prete cita il fallimento del pub Ballarò, inaugurato a gennaio del 2016 e chiuso tre mesi dopo, nonostante la grancassa istituzionale. «In quel caso si trattava di un esercizio commerciale che non aveva un’idea vera del recupero del quartiere – dice -. Degli esempi positivi, invece, esistono: penso a Moltivolti e Ballarak, che prima si sono impegnati sul territorio e poi hanno deciso di aprire le proprie attività, facendo riferimento all’associazionismo che gravita attorno a Sos Ballarò».