Dopo due bocciature e il rifiuto del trasferimento per ragioni di sicurezza, il pm è tra i 66 contendenti per entrare a far parte della superprocura guidata da Franco Roberti. In lizza anche altri due magistrati palermitani, due pm che lavorano al caso Mafia capitale e Alfonso Sabella
Di Matteo vince concorso per Direzione Nazionale Antimafia Ci sono anche Principato e Ardita, decisione entro gennaio
Dopo due bocciature e il rifiuto del trasferimento per ragioni di sicurezza, per Nino Di Matteo potrebbe essere arrivato il momento dell’assegnazione alla Direzione nazionale antimafia come vincitore di concorso. Almeno secondo le indiscrezioni che circolano al Csm, che si appresta a prendere una decisione a breve. La prossima settimana la Terza commissione di palazzo dei Marescialli comincerà infatti la discussione sui candidati da proporre al plenum per cinque posti da sostituto alla superprocura guidata da Franco Roberti. E al massimo entro la fine del mese arriverà la decisione.
I posti da assegnare non sono pochi, ma i candidati sono tanti: 66 con Di Matteo. Tra di loro ci sono i due pm del processo Mafia capitale Giuseppe Cascini e Luca Tescaroli, l’ex assessore alla Legalità del Comune di Roma Alfonso Sabella, ora pm a Napoli, il segretario dell’Anm Francesco Minisci e i procuratori aggiunti di Palermo Teresa Maria Principato e Sebastiano Ardita. Concorrenti di peso che tuttavia non dovrebbero sbarrare la strada al pm del processo sulla trattativa Stato-mafia. Due mesi fa Di Matteo, dopo che un’intercettazione aveva rilanciato l’allarme per un possibile attentato ai suoi danni da parte della mafia, aveva respinto l’offerta del Csm si trasferirlo alla Procura di via Giulia senza concorso per ragioni di sicurezza.
Accettarla sarebbe stato «un segnale di resa personale e istituzionale che non intendo dare», aveva spiegato il magistrato più protetto d’Italia ai consiglieri. Di qui la decisione di candidarsi nuovamente e per le vie ordinarie alla Dna, nonostante la delusioni precedenti: la più pesante due anni fa quando Palazzo dei marescialli gli preferì altri tre magistrati e lui reagì con un ricorso al Tar del Lazio, lamentando di aver subito un’«ingiusta mortificazione».