“Dietro la strage di via D’Amelio misfatti sociali, politici e affaristici”

In questi giorni la vera o presunta trattativa tra Stato e mafia torna alla ribalta con le accuse formulate dalla Giustizia nei confronti di Marcello Dell’Utri. Così abbiamo deciso di fare una chiacchierata con un personaggio che, negli anni ‘80 e negli anni ‘90 del secolo scorso, di battaglie sociali, politiche e sindacali ne ha condotte tante. Gioacchino Basile è l’ex operaio dei Cantieri navali di Palermo, sindacalista della Cgil, che per primo ha denunciato, spesso in solitudine, le infiltrazioni mafiose nei Cantieri navali di Palermo.

Ed è tra i primi a sottolineare, sempre in quegli anni, le incredibili condizioni in cui erano costretti a lavorare gli operai del Cantiere, a contatto con le polveri e le fibre di amianto senza alcuna protezione. Nel leggere la memoria presentata ai magistrati da Basile si rimane sbigottiti. Le polveri e le fibre di amianto venivano spazzate come se si trattasse di comune polvere. Gli operai, spesso, tornavano a casa con le tute piene di scorie di amianto, mettendo a rischio la loro vita e quella dei loro familiari. Per non parlare degli abitanti del luogo, che erano tanti, anche loro a rischio amianto.

Questo scenario ha trovato conferma nella sentenza del Tribunale di Palermo che risale all’aprile dello scorso anno. Un processo di primo grado che si è concluso con la condanna di tre alti dirigenti della Fincantieri di Palermo, accusati di non aver tutelato gli operai dai rischi dell’amianto (37 operai morti, 26 gravemente malati e, si suppone, altre persone morte o malate sempre a causa delle fibre di amianto che, nel quartiere dove insistono le officine dei Cantieri navali, il vento trasportava in ogni dove).

Di tale vicenda abbiamo parlato nei giorni scorsi, quando sono state depositate le motivazioni di questa sentenza. Articoli che i nostri lettori possono leggere consultando il nostro giornale on line.

Tornando a Basile, va detto che questo battagliero operaio si è spessp trovato da solo e ha spesso polemizzato anche con il suo sindacato, la Cgil. Per tutti gli anni ‘80 Basile non si è fermato. Nel 1992, pochi giorni prima della stage di via D’Amelio, consegna un memoriale al giudice Paolo Borsellino. E’ uno scritto dove si denunciano fatti e misfatti dei Cantieri navali di Palermo. Storie che Borsellino non farà in tempo ad approfondire perché la sua vita verrà interrotta con il tritolo.

Secondo le recenti indagini della magistratura, Borsellino potrebbe essere stato ucciso perché venuto a conoscenza della trattativa tra Stato e mafia alla quale si sarebbe opposto. Secondo indagini anteriori – forse mai valorizzate a fondo – c’è anche una seconda tesi che spiegherebbe l’uccisione del grande magistrato: una sua indagine sui grandi appalti pubblici. Ad avvalorare questa seconda ipotesi c’è un’accurata e dettagliata inchiesta dei Ros, il Reparto operativo speciale dei Carabinieri, condotta alla fine degli anni ‘80 proprio sul ‘complicato’ mondo dei grandi appalti siciliani in quegli anni ‘colonizzato’ dai grandi gruppi economici e finanziari nazionali. Un’inchiesta chiusa dalla magistratura subito dopo la strage di via D’Amelio.

 

Basile, oggi si torna a parlare di trattativa tra Stato e mafia. E sotto inchiesta finisce anche Marcello Dell’Utri. Lei cosa pensa?

“Marcello Dell’Utri -legato inesorabilmente alla cultura mafiosa di una certa borghesia, con riferimento al suo passato palermitano, ma non solo a quello – è un ottimo ‘contenitore’ per ospitare le ‘verità’ di criminali che si dicono pentiti. In ogni caso, non è una tesi che mi convince. Non sono d’accordo con le interpretazioni di qualche pubblico ministero e, in particolare, non concordo con Antonio Ingroia”.

 

Lei, tramite il suo avvocato – che poi è sua figlia – ha consegnato ai magistrati del Tribunale di Palermo una memoria dove ricorda gli anni passati, da operaio, nei Cantieri navali del capoluogo siciliano. E in questo racconto lei delinea uno scenario che lega la morte del giudice Paolo Borsellino con vicende riguardanti l’azienda presso la quale ha lavorato. Vediamo di capire come stanno le cose, ovviamente dal suo punto di vista.

“Il mio fondato e documentato sospetto si consolida lungo l’arco di quindici anni di battaglie contro la mafia. E’ un racconto che, grosso modo, si snoda dai primi anni ‘80 fino al 1997. Parlo delle vicende sociali, economiche, politiche e giudiziarie che ho vissuto insieme con i miei compagni di lavoro. Una lunga stagione di battaglie contro ‘cosa nostra’ che, come denunciavamo ripetutamente in quegli anni, operava indisturbata dentro lo stabilimento di Fincantieri a Palermo. Sono stati venti anni di lotte durissime. Qualche volta vincevamo qualche battaglia, spesso perdevamo. Lo Stato, dentro i Cantieri navali di Palermo, non c’era. Si era ritirato. Aveva, di fatto, lasciato il campo alla mafia”.

 

Non le sembra un’affermazione un po’ forte?

“No, perché è la verità. In quegli anni i poteri economici, politici, sindacali e istituzionali perdevano progressivamente i caratteri della legalità. E venivano sostituiti con una normalità modellata sull’accettazione di comportamenti platealmente illegali. Penso all’utilizzazione dell’amianto in azienda senza alcuna protezione per la salute degli operai. E penso, anche, alla gestione dei subappalti, tutti controllati dalla mafia con la connivenza generale. Tutto questo si accompagnava alla crisi della stessa azienda. E’ nella prima metà degli anni ‘80 che inizia la lenta e progressiva deindustrializzazione di Palermo, a partire proprio da una propria realtà produttiva storica: i Cantieri navali. La dimostrazione che la mafia non porta sviluppo, ma impoverimento, disoccupazione, violenza e morte”.

Lei parla di un legame stretto tra le vicende dei Cantieri navali di Palermo – vicende che si snodano tra mafia e amianto – e la strage di via D’Amelio. Vediamo di spiegare, sempre dal suo punto di vista, come stanno le cose.

“La sera del 25 giugno 1992 nella biblioteca comunale di Palermo consegnavo a Paolo Borsellino le inoppugnabili prove documentali che dimostrano, al di là d’ogni ragionevole dubbio, che Fincantieri pagava le funzioni regolatrici dei mafiosi dentro i Cantieri navali. Quello che racconto è documentato. Un eccitato Paolo Borsellino, dopo aver visionato e letto attentamente i nomi contenuti in quell’esposto, mi dice: domattina mi spedisca subito a mezzo raccomandata questo esposto-dossier in Procura, anche se al momento non ho la delega sù Palermo lo seguirò attentamente in qualità di Procuratore aggiunto. Nei giorni successivi l’interesse diretto di Paolo Borsellino si palesa in tutta la sua portata ed ha un seguito importantissimo. Ma…”.

 

Ma?

“Il 16 luglio vengo convocato dal giudice Vittorio Teresi, che m’interroga. Io confermo tutte le mie denunce. Parti importantissime del mio interrogatorio non vengono verbalizzate. Restiamo intesi che ci saremmo risentiti. Invece non sono mai più stato interrogato”.

 

E poi?

“Di quei giorni ricordo un nuovo, immediato impegno della Procura della Repubblica di Palermo. Poi, però, tutto si risolve negativamente nel giro di pochi giorni”.

 

In che senso?

“Già all’indomani della strage di via D’Amelio qualcuno, in quella Procura, riprende quella che io definivo la linea degli errori. Il risultato è che, alla fine, tutto resta come prima. Fincantieri e ‘cosa nostra’ si salvano. E la mafia continua indisturbata ad esercitare le proprie ‘funzioni regolatrici’ nello stabilimento dei Cantieri navali di Palermo fino al luglio 1997. Ma, c’è di più, molto di più”.

 

Ovvero?

“Come ho già più volte gridato in questi ultimi 10 anni, non mi arrenderò mai. Non abbandonerò mai la speranza di fare emergere il movente che determina la strage di via D’Amelio, dove perdono la vita Paolo Borsellino e gli uomini della sua scorta. Dietro questa strage c’è un’indegna verità che si lega inesorabilmente a quello che succedeva nei Cantieri navali di Palermo. In questa storia c’è anche il pezzo più importante della mia vita. Ci sono i valori della Giustizia e della Verità che sono stati traditi indegnamente dalla mafia che ha il volto delle Istituzioni”.

 

Insomma, a suo avviso perché viene ucciso Paolo Borsellino?

“Paolo Borsellino è stato ucciso nell’interesse di misfatti sociali, politici e affaristici. Nella tragica fine di questo grande magistrato e della sua scorta c’è anche il pesantissimo disimpegno dello Stato verso i Cantieri navali di Palermo. Voglio ricordare che, dei circa quattro mila dipendenti diretti e dei circa duemila e cinquecento lavoratori indiretti di allora si è passati, oggi, a poco più di novecento adetti: quattrocento diretti e conquecento indirettiti. Con prospettive grame”.

 

Lei, insomma, vede sullo sfondo una questione sociale.

“Tanta ingiustificata è cinica infamia imposta contro una città, Palermo, assetata di lavoro, nell’interesse dei poli cantieristici del Nord Italia non poteva esser attuata pacificamente senza il controllo affaristico, clientelare e parassitario della politica e del sindacato siciliano. E senza le pesanti funzioni regolatrici della mafia”.

 

Alla luce della sua esperienza, cosa non ha funzionato – e cosa non funziona ancora oggi – nella giustizia italiana?

“La nostra storia ci notifica che, in Sicilia in particolare e nel nostro Paese più in generale, la magistratura, pur avendo al proprio interno uomini e donne di valore, non sempre riesce a fare emergere la verità e a far trionfare giustizia. Troppe volte abbiamo dovuto prendere atto di errori e di scelte a mio avviso sbagliate, ma insindacabili che non hanno nemmeno scalfito quella mafia che, lo ripeto, ha il volto delle Istituzioni. Se ancora oggi in certe aree della Sicilia e del Mezzogiorno del nostro Paese il crimine organizzato è idealizzato come unica forma di dissenso, ebbene, tutto questo non è casuale. Siamo davanti a un’incrostazione culturale che è figlia della natura criminale imposta alla nostra democrazia da certi atteggiamenti della magistratura”.

 

A suo avviso la trattativa tra mafia e Stato c’è stata?

“La trattativa tra mafia e Stato, per come si cerca di farla passare, non è mai esistita. Non ci può essere trattativa fra lo Stato e la ‘munnezza’ criminale che lo stesso Stato ha sempre utilizzato a proprio piacimento contro i valori della Costituzione e contro la dignità dei cittadini siciliani ed italiani più in generale. Con la supposta trattativa si cerca di confondere la verità che è invece semplicissima: l’urgente strage di via D’Amelio determina, per il governo nazionale di quegli anni, l’immediata necessità di rompere i patti con Totò Riina e l’accozzaglia criminale che gli era fedele. Bisognava tagliare alcuni cordoni criminali per saziare la voglia di giustizia degl’italiani onesti e porre riparo a quello che, dopo le stragi di Capaci e di via D’Amelio, era diventato uno scandalo internazionale. Le stragi del 1993 sono l’infame reazione criminale che avrebbe voluto condizionare la reazione – o il ‘tradimento’ – dello Stato e di quei governi: reazioni che poi si sono esaurite proprio grazie alla forza delle Istituzioni contro la ‘munnezza’ criminale”.

 

 

 


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