Il teatro Stabile di Catania apre il sipario con la trasposizione teatrale di "Diceria dell'untore", romanzo di Gesualdo Bufalino che tratteggia in chiave onirica e barocca la Sicilia del secondo dopoguerra
Diceria dell’untore, Pirrotta e Lo Cascio inaugurano la stagione dello Stabile
Leonardo Sciascia celebrava la scrittura di Bufalino, definendone le parole «febbricitanti, tenere, barocche, a gara con il barocco di una terra che ama l’iperbole dell’eccesso». Un’analisi a dir poco calzante per “Diceria dell’untore”, romanzo pubblicato nel 1981, e recentemente riadattato in versione teatrale da Vincenzo Pirrotta che, per il Teatro Stabile di Catania, ha anche curato la regia dello spettacolo, in scena dal 30 novembre al 13 dicembre. Protagonista e voce narrante, Luigi Lo Cascio tesse le fila del racconto cui dà ritmo con alta classe scenica.
Lo sguardo è volto ad un sanatorio sulle alture di Palermo, in una afosa estate del ’46.
«Ti resta poco tempo e abbiamo vent’anni», è questa l’esortazione di un uomo innamorato, che cammina in bilico tra il «volere o disvolere morire».
Trascinando un corpo affetto da tubercolosi, un giovane reduce dalla guerra, incrocia le vite di chi ha subito la sua stessa sentenza: ci sono il Colonnello, l’Allegro, il Pensieroso, frate Vittorio e, soprattutto, il medico, “il Gran Magro”, figura di spicco di cui il regista veste i panni, con il quale i malati intrecciano dissertazioni e meditazioni filosofiche sulla contiguità tra la morte e il sublime.
La vita diventa una condanna, l’espiazione di una colpa che non si è commessa, perché «eravamo nulla e nel nulla eravamo tranquilli».
La creazione è un atto di egoismo dell’Altissimo per porre fine alla sua solitudine.
A salvare il protagonista è l’amore per una ballerina, Marta, che, in quanto artista e in quanto donna, più di tutti soffre della mortificazione di un corpo che esprime insieme con l’anima la vanità femminile.
Il medico geloso, il passato ambiguo della donna, ebrea accusata di collaborazionismo, e l’aggravarsi della malattia, ostacoleranno quel sentimento che aveva ridato luce agli occhi del giovane.
Dei tre, il protagonista sarà l’unico superstite.
Alla condanna della morte subentrerà la prospettiva della quotidianità di una vita insignificante «che al posto di una parte di prim’attore, già scritta, vedrà improvvisare le battute di una comparsa».
Lo Cascio e Pirrotta, già in passato compagni di camerino, tornano a collaborare per rappresentare un romanzo dalla genesi complessa, forse anche per le tinte autobiografiche.
L’enfasi dell’interpretazione di Lo Cascio, però, mette in scena in maniera magistrale i sentimenti del protagonista della piéce, relegando il resto della compagnia allo sfondo.