Denuncia usurai, ma Stato e parenti lo isolano «Mi trattano tutti come se il mafioso fossi io»

«Tuo padre è spione, dovete andarvene dalla Sicilia». Angela ha solo tredici anni quando si ritrova davanti a questa frase, scritta con un gessetto sulla lavagna della sua classe. È solo una bambina, ma capisce subito che è indirizzata a lei. È suo quel padre a cui allude il messaggio, non ha dubbi. Un padre colpevole di aver denunciato, anni prima, i propri aguzzini. Lui si chiama Bennardo Mario Raimondi ed è un artigiano ceramista, specializzato nel realizzare presepi. Non un mestiere qualsiasi, almeno per lui. Ce l’ha nel sangue, crea da quando è un ragazzino ed è una delle poche cose che oggi riesce a permettergli di sopravvivere. La sua è una storia che inzia negli anni Duemila quando, vessato da debiti e difficoltà, si rivolge ad alcuni usurai, dopo che anche le banche gli hanno chiuso le porte. Con le spalle al muro, accetta questi soldi, convinto di poterli restituire tutti e anche di più in poco tempo. Ma le cose non vanno come sperato.

«Non ho più potuto pagare – racconta l’uomo -. A incidere è stato soprattutto l’aver lavorato, e quindi guadagnato, di meno. Non potevo…ho perso un figlio di quattro mesi, un lutto che mi ha devastato. E dopo poco tempo, se n’è andato anche mio fratello, aveva 46 anni». Gli usurai, però, non si lasciano impietosire. Anzi, diventano sempre più insistenti e minacciosi. «Ho venduto la casa per poter saldare ogni conto con loro, mentre lo Stato mi pignorava il negozio, vendendolo all’asta al ribasso», continua. Una strada tutta in salita, resa ancora più difficile dalle numerose intimidazioni ricevute dai suoi aguzzini, che nel 2006 decide di denunciare. «Mi hanno minacciato, rubato l’auto e fatto trovare persino una finta bomba davanti al portone di casa. Per non parlare di alcuni episodi, come quello accaduto a scuola, che ha coinvolto anche i miei figli – dice Bennardo -. Ma la giustizia ha fatto il suo corso, riconoscendoli colpevoli. Il processo si è concluso nel 2013 e da allora non ho più sentito parlare di queste persone, né ricevuto altre minacce».

Fino a qui sembrerebbe una storia a lieto fine. Ma appena uscito da un incubo, per Bennardo e i suoi familiari ne inizia un altro forse anche più crudele. Quello dell’isolamento sociale. «Ho ricevuto dallo Stato circa 30 mila euro, sono stato riconosciuto una vittima di mafia – spiega -. Ricominciare a lavorare, però, è difficile: nessuno compra nel mio negozio, che ormai non esiste nemmeno più, visto che mi arrangio in un magazzino di 25 metri quadri senza acqua né un bagno». Spesso si piazza davanti alle chiese, che in alcuni casi acquistano i suoi lavori in terracotta e ceramica, ma «non tutti i parroci mi fanno restare, qualcuno forse ha paura, non so bene di cosa, altri sono indifferenti». Altri decidono di dargli una mano, inserendolo nella prossima fiera di Natale dedicata all’artigianato locale in via Magliocco.

A dargli una mano è anche papa Francesco, al quale tre anni fa Bennardo scrive una lunga lettera di otto pagine, in cui ripercorre i drammi vissuti. «Lui mi ha telefonato per confortarmi e dopo mi ha inviato un assegno di mille euro e un rosario d’argento con dedica. Io, per riconoscenza, gli ho fatto avere uno dei miei presepi», racconta. La stessa cifra la riceve anche quando la presidente della Camera Laura Boldrini gli consegna la medaglia al valor civile. «Sono gesti che mi lusingano, ma restano purtroppo piccoli aiuti, tamponi. Nulla che mi aiuti a vivere dignitosamente giorno dopo giorno. Non è così che posso pagare le tasse. Vivo insieme a mio padre che ha 91 anni e paga l’affitto con la sua pensione, ma lui non è eterno – spiega infatti -. Sono anche iscritto alla Camera di commercio, che continua a farmi arrivare cartelle esattoriali che non posso pagare, ma per chiudere tutto vogliono soldi, che io non ho, oppure mi hanno proposto di acquistare un presepe per far cessare tutto. Un’idea che onestamente ha solo suscitato in me tanta rabbia, di quelle che ti fa sentire umiliato, che ti ammala dentro».

Va avanti come può, Bennardo. Ma si sente sempre più solo. I primi a tirarsi indietro, dopo la sua denuncia nel 2006, sono state le persone più vicine e i familiari: «Tutti scomparsi. Del resto, come si dice? “Fino a quannu ci su i picciuli semu tutti amici e parenti”. A quanto pare denunciare i mafiosi è una cosa ancora oggi controcorrente, che porta solo umiliazioni e isolamento». Si rivolge anche alle associazioni antiracket, ma non tutte sembra che accettino di aiutarlo. Di alcune, poi, non si fida nemmeno. Ma le sue critiche più aspre sono tutte per le istituzioni locali, dalle quali si è sentito abbandonato e costretto a vivere di elemosina. «Palermo capitale della cultura, ma ignora un artigiano che è anche vittima. Eppure denunciando ho fatto un gesto per la città, un gesto di coscienza – spiega -. Palermo non è cambiata, è rimasta alla cultura arretrata di decenni fa e mi ha trattato e continua a trattarmi come se il mafioso fossi io». Bennardo è convinto che la città sia ancora ostaggio di paura e omertà, ma non si pente della scelta fatta quasi vent’anni fa: «Denuncerei comunque, ancora. Ma andrei via dalla Sicilia, questa terra non mi ha dato niente».


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