Mauro Puzzo ha 29 anni e ha lasciato un futuro da legale per lavorare nel Paese sull'orlo del baratro. «È bello veder crescere nelle persone la consapevolezza sui propri diritti e su quelli degli altri. Le piccole rivoluzioni quotidiane che modificano la mentalità della gente danno un senso al nostro lavoro»
Da Siracusa al Sud Sudan per difendere i diritti umani «Pensavo di fare l’avvocato, ora giro con i militari Onu»
Mauro Puzzo, siracusano di 29 anni, è l’unico italiano a Bor, in Sud Sudan, dove è Human Rights Officer con la missione Onu Unmiss. «Da piccolo volevo fare il calciatore, come quasi tutti i bambini italiani – racconta a Meridionews – poi è stato un percorso a tappe quello che mi ha portato fin qui». A circa 200 chilometri rispetto a dove si trova Mauro, nella capitale Juba, lo scorso 8 luglio sono scoppiati combattimenti molto violenti. «Siamo preoccupati perché negli ultimi tempi si stavano intravedendo miglioramenti nell’implementazione dell’accordo di pace e invece questi scontri hanno bruciato quanto di buono era stato fatto e il Paese è di nuovo sull’orlo del baratro. Al momento – aggiunge – è impossibile prevedere cosa succederà nei prossimi giorni, ma sicuramente queste ulteriori violenze non faranno che peggiorare la situazione delle violazioni dei diritti umani».
Laureato in giurisprudenza alla Luiss con una tesi in diritto internazionale, fino al terzo anno «vedevo il mio futuro da classico avvocato e non mi immaginavo di lavorare in Africa o in un Paese in via di sviluppo» racconta Mauro che, da avvocato abilitato alla professione, ha anche una specializzazione in diritto internazionale penale all’Istituto Superiore di Scienze Criminali di Siracusa. È a Washington DC, all’istituto no profit The Protection Project, la prima esperienza internazionale durante la quale «mi sono occupato di diritti umani in rapporto con il diritto islamico e, soprattutto ho svolto ricerca nell’ambito del traffico di esseri umani».
La prima avventura in Africa è in Gambia, nel 2014, quando Mauro viene selezionato per il Youth volunteer programme – Giovani volontari delle Nazioni unite. «Lì ho lavorato per l’United Nations Development Programme, una agenzia dell’Onu. Davo assistenza a una agenzia governativa che faceva capo al ministero della Giustizia gambiano – spiega – e che si occupava di offrire servizi legali alle fasce più povere della popolazione. Il progetto che ha avuto più successo è stato la Mobile legal clinics: un vero e proprio studio legale itinerante che si spostava con un furgoncino per arrivare nelle zone più remote del Paese».
Tornato a Siracusa, Mauro viene contattato dall’ufficio Onu di Bor e accetta la posizione di Human Right Officer. «Dopo l’esperienza in Gambia – racconta – ho visto che il lavoro sul campo mi permetteva di stare proprio nei luoghi in cui le cose vengono fatte concretamente e danno risultati visibili. Allora, ho voluto accettare un’altra sfida e sono partito pensando che anche con il mio piccolo contributo si potesse fare qualcosa di buono in Sud Sudan». Da quando nel 2013 è iniziata la guerra fra i leader delle due etnie più numerose per il comando del Paese, che ha ottenuto l’indipendenza dal Sudan dopo un referendum nel 2011 con il 99 per cento dei consensi, il Sud Sudan è diventato terra di nessuno. Lì, come denuncia il rapporto dell’alto commissariato dell’Onu per i diritti umani, interi villaggi sono stati dilaniati e i crimini di guerra sono all’ordine del giorno.
«La mia attività principale qui – spiega Mauro – è quella di monitorare, investigare e documentare le violazioni dei diritti umani. Da quando è scoppiato il conflitto, i civili di tutte le tribù hanno cercato rifugio dentro le basi dell’Onu e, per la prima volta nella storia delle Nazioni unite, i cancelli sono stati aperti per fornire protezione. Quindi, noi lavoriamo sia all’interno delle basi che all’esterno monitorando anche prigioni, stazioni di polizia, tribunali e intervistando le diverse autorità locali». La regione in cui si trova Mauro, quella dello Jonglei, per il momento non è coinvolta negli ultimi combattimenti ma è una di quelle in cui il precedente conflitto era stato più violento. È la regione più grande ed è controllata da tre diverse autorità: una parte dal governo, una dai ribelli e una parte autonoma è gestita da un’altra autorità.
«Quando ci spostiamo per prendere parte a delle missioni integrate, per controllare cosa succede nelle zone più remote, se ci sono cibo, acqua, ospedali, medicine, scuole, utilizziamo l’elicottero e veniamo scortati dai Caschi blu che sono armati. Certo non è piacevole andare in giro sempre con il giubbotto antiproiettile – continua Mauro – né vedere quasi tutti i civili armati, molti veicoli militari lungo le strade e sentire gli spari dei kalashnikov come fosse una cosa normale. Il fatto che non succede nulla per molto tempo crea una situazione di falsa sicurezza, per cui il vero pericolo diventa abbassare la guardia e trovarsi impreparati agli eventi improvvisi come quegli degli ultimi giorni nella capitale».
Workshop e meeting di formazione e sensibilizzazione sui diritti umani pensati per militari, popolazione civile e autorità locali sono altre attività di cui si occupa Mauro da Human Rights Officer. In Sud Sudan, dove la maggior parte della popolazione è analfabeta e dedita alla pastorizia, sono ancora molto radicate tradizioni secolari che cozzano con i principi internazionali dei diritti come, per esempio, i matrimoni precoci e forzati. «Eppure, è bello – commentato il giovane siracusano – veder crescere nelle persone la consapevolezza sui propri diritti, su quelli degli altri e delle altre tribù. Quello che dà senso al nostro lavoro sono le piccole rivoluzioni quotidiane che modificano la mentalità della gente con cui ci rapportiamo».
Mauro, che ha appena rinnovato il contratto per un altro anno in Sud Sudan e ha intenzione di continuare a lavorare nell’ambito delle organizzazioni internazionali in qualsiasi parte del mondo, non nega che «a fare da contrappeso a una esperienza incredibile dal punto di vista personale e professionale, ci sono condizioni di vita austere. Viviamo, infatti, in container prefabbricati all’interno di basi molto spartane, mangiamo sempre e solo riso, fagioli, carne o pollo. Fondamentalmente è come stare in carcere. Il pochissimo svago è legato alla palestra o a qualche attività fisica che riusciamo a fare all’esterno, quando non c’è troppo caldo o quando le piogge non hanno infangato tutte le stradine. Appena ne ho la possibilità, torno a casa a Siracusa perché mi mancano il buon cibo, il mare, la famiglia e gli amici».