Tre Forchette, cioè primo chef siciliano e una tra le migliori cucine d’Italia per il Gambero Rosso; Tre Cappelli per l’Espresso; miglior ristorante in Italia per la guida Gatti-Massobrio. «Ma non è vero», ironizza Pino Cuttaia, cuoco e artigiano orgogliosamente licatese. Profumi e sapori versati su e giù per la penisola e in lungo e in largo per il mondo, meta di pellegrinaggio per clienti e addetti ai lavori: ecco cos’è La Madia, progetto di vita prima ancora che ristorante.
La propria vicenda, Cuttaia, la racconta nei suoi piatti, nella sua bottega gastronomica, Uovo di Seppia, e nel suo libro Per le scale di Sicilia. Ma la cogli già nei suoi occhi: ti accorgi del perché rinunciare alla sicurezza di un contratto alla Olivetti per fare il cuoco, ha reso un uomo felice e una comunità più ricca. Lo chef era un bambino quando i suoi emigrarono e trascorreva ore a guardare la nonna cucinare; era un ragazzo quando imparò il rigore della fabbrica, al Nord; un uomo coraggioso quando scelse, prima, di diventare cuoco, e poi di farlo nella sua terra. È facile, adesso, parlare di stelle e di successi. Ma cosa c’è oltre i riflettori? C’è un lavoro massacrante nello spazio di una cucina, ritmi frenetici tra i vapori e lo scroscio ripetitivo delle stoviglie. Il sacrificio, che quando latita si trasforma in nuda spettacolarizzazione.
«La visibilità è importante – risponde Cuttaia – perché offre l’immagine pulita del nostro lavoro, comunica oltre le frontiere di luoghi e ristoranti. Anche la tv è fondamentale, ti conoscono anche i vicini di casa: ad esempio, andare dalla Parodi mi ha avvicinato ai miei concittadini. Quando si esagera, però, diventa deleterio: il cuoco deve fare la spesa e stare ai fornelli, non solo davanti alle telecamere». Nella reception del ristorante Cuttaia fa avanti e indietro per seguire il servizio, alternando indicazioni a «Gli piace?», testimonianza della sua attenzione ai clienti.
Il cuoco avrà anche una funzione sociale. «Certo: è educare il territorio, coltivare il buono, contribuire attraverso il proprio lavoro alla fase di imprinting dei bambini». E raccontare storie, in un flusso in cui «il ricordo si fa complice di chi ascolta: memoria comune, di un passato che rimane nel presente e nel quotidiano». C’è chi dice che l’arte, quando è locale, si chiama artigianato. «Secondo me – afferma lo chef – le due discipline hanno pari dignità, con una differenza: l’artigianato riproduce qualcosa, il prodotto artistico è unico. L’artigiano modella la materia e rende visibile il proprio apporto di esperienza, l’artista crea nell’impalpabile». Cosa insegnerebbe nelle scuole? «La passione per un mestiere, l’idea che si fa gesto, la fase creativa. Il sacrificio. Ci vorrebbero giornate di 48 ore», aggiunge tra una domanda e l’altra.
La tradizione raccontata con un linguaggio contemporaneo, è il metodo di Cuttaia e, al tempo stesso, la sfida per chi vuole incidere nella società di oggi. Il cibo, la tavola come riti collettivi. «I vespri più lunghi dei soliti riportano alla noia come denominatore dei ritrovi statici, di attese per un treno che non passa mai. Io, oggi, non mi annoio, al punto di cercare quasi la noia per goderne un po’, ma se comunemente si finalizzassero gli incontri alla condivisione, avremmo casi in cui il cibo unisce e rafforza un pensiero, un’amicizia, un obiettivo comune. Nelle nostre comunità, forse, manca una vera trattoria, dove, alla sera, vino e pasta e fagioli ti danno la giusta energia per affrontare l’indomani lavorativo, insieme agli altri. L’invidia e l’egoismo non hanno senso in una modernità veloce».
Cuttaia ha vissuto la crisi da giovanissimo, e adesso, contro quella attuale, probabilmente ha una ricetta: «Non essendoci più il posto sicuro, il lavoro lo dobbiamo creare noi; si deve tornare alle origini: i contadini o gli artigiani non hanno voluto che i propri figli continuassero in questi mestieri umili, per riscattarsi: è un peccato, perché oggi avremmo la terza generazione in settori che avrebbero un’impostazione ormai industriale. Chi va fuori ad acquisire nuove professionalità dovrebbe credere nella propria città e tornare; collaborare, fare sistema e puntare sulle nostre risorse: capire che, oggi, in campagna ci andrebbe non lo sfigato, ma il dottore agrario, il quale utilizzerebbe la terra come un grande mezzo di comunicazione». Una cucina fatta di ricordi, ma come ricordare Pino Cuttaia in una parola? «Contemporaneo».
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