«Prendere in mano Fabrizio De André non è facile. Mio padre è una montagna, ma il timore che avevamo si è rivelato un successo». Cristiano De André, in tour da giugno, riempie teatri e palazzetti con lo spettacolo De André canta De André, che giovedì sera ha fatto tappa al teatro Metropolitan di Catania
Cristiano De André, sulla sua cattiva strada
Sale sul palco senza dire una parola e affida l’apertura al “loro” (suo e del padre) dialetto, il genovese, con “Mégu Megùn” e “‘A Cimma”. Saluta un pubblico entusiasta a cui spiega subito cosa lo abbia spinto a tornare ad esibirsi: «Non ero ancora pronto a cantare le canzoni di mio padre. Ci ho messo un po’ di tempo a decantare il dolore. Ma ogni sofferenza passa e adesso sono pronto».
Cristiano De André vuole dare una sua impronta a questo lavoro – come egli stesso afferma – e, con l’aiuto di Luciano Luisi, rivisita i brani del padre con arrangiamenti che spesso assumono tinte rock. Il concerto prosegue con “Ho visto Nina volare” e “Don Raffaè”.
Poi, l’unica canzone che scrisse con il padre: “Cose che dimentico”. Racconta di aver fatto ascoltare a Fabrizio De André, una sera a cena, una musica che aveva in mente. Dopo qualche ora, alle 5 del mattino, lui lo chiamò e gli disse di raggiungerlo. A quella musica aveva affidato il racconto e la memoria di un poeta gallurese suo amico, morto di aids: “Un amore che vorrei, un amore che non cerco perché poi lo perderei”.
Da questo punto è tutto un alternarsi di ricordi, aneddoti e canzoni.
Scoppia il consenso quando Cristiano libera dall’ombra della censura “Se ti tagliassero a pezzetti”, canzone che ha come soggetto e protagonista la libertà. Chi tra il pubblico ricorda i live di Fabrizio si compiace del suo cantare orgoglioso “signora libertà, signorina anarchia” e non “signorina fantasia”, come gli era stato imposto.
«Mio padre era un anarchico, una persona che credeva nella poesia e nell’utopia. Forse, mai come in questo momento, anche io preferisco credere in ciò che non esiste», commenta Cristiano.
È la volta di “Amico fragile”, canzone che Cristiano dichiara di sentire molto intimamente e che in molti ritengono la vera autobiografia di Faber. Continua ad esibirsi accompagnato dai sui musicisti (Osvaldo Di Dio alle chitarre, Davide De Vito alla batteria e Davide Pezzini al basso), scegliendo quelle canzoni che – dice – fanno parte del suo passato, perché le ha viste scrivere: “Creuza de ma’”, “Andrea”, “La cattiva strada”, “La canzone di Marinella”, “Un giudice”, “Quello che non ho”, “Bocca di Rosa”.
E’ solo il pianoforte ad accompagnarlo in “Verranno a chiederti del nostro amore”. Brano quasi sussurrato e, anche se le luci tenui lasciano intravedere solo i tasti, l’emozione è percepibile. L’applauso si fa per la prima volta scrosciante, quando è l’intero teatro a dire insieme a lui “continuerai a farti scegliere o finalmente sceglierai”.
Questa partecipazione lo porta a regalare al pubblico un ricordo molto intimo: «Ero un bambino quando mio padre, una notte, scrisse questa canzone. Scesi dal letto e, da dietro la porta, lo vidi al pianoforte, cantare a mia madre le parole che aveva appena scritto. Era proprio “Verranno a chiederti del nostro amore”».
Cristiano dimostra la sua abilità da polistrumentista e alla chitarra alterna il violino, il pianoforte, le tastiere e il bouzouiki. La regia è ancora una volta curata da Pepi Morgia, come in tutti gli spettacoli di Fabrizio.
Non ci sono carte e tarocchi a fare da cornice al palco, come nell’ultima tournée del padre nel ’98, ma la penombra continua ad accompagnare parole e musica. I sentimenti sono ambivalenti. Quel buio tanto voluto da Fabrizio, che temeva le esibizioni in pubblico, è lo stesso che ci riporta indietro nel tempo, aiutati da una fisionomia e da una voce calda che ricordano chi queste canzoni le ha scritte.
C’è anche chi storce il naso perché teme di essere solo lo spettatore di una grande operazione commerciale.
E in effetti, non sembra lontano il rischio di una mercificazione di poesia ed emozioni, come dimostrano le mostre allestite ogni qualvolta si presenti l’occasione di una commemorazione, e i mille libri pubblicati da chi ha qualcosa da dire su Fabrizio De André.
Ma se si abbandona il cinismo, si riesce anche a credere che Cristiano sia «l’unico testimone delle canzoni di mio padre».
Solo testimone, ma non unico erede di versi che non hanno tempo. Chiude il concerto, più volte incitato a tornare sul palco, con “La canzone dell’amore perduto”.
E la standing ovation è quasi scontato che voglia arrivare un po’ più su.