Secondo i magistrati i nove morti nel canale di Sicilia dell’aprile 2015 sarebbero stati gettati in mare in seguito a una lite a sfondo religioso scaturita sul gommone. Per la difesa, invece, la risposta è da ricercare nello scenario del naufragio emerso dalle testimonianze. Lorenzo Marchese: «Qui si parla di cose che la gente sconosce»
Cristiani annegati da musulmani, migranti a processo Difesa: «Per lo Stato gli imputati sono solo numeri»
«Delinquenti per tendenza», cioè con un’indole predisposta alla cattiveria. È così che la Procura di Palermo ha definito i 15 migranti a processo, per i quali ha chiesto l’ergastolo. Sono accusati di omicidio plurimo in concorso con l’aggravante dell’odio religioso, per aver gettato in mare da un gommone partito dalla Libia alcuni migranti perché di fede cristiana. Questa, almeno, la ricostruzione dei pm Claudio Camilleri, Renza Cescon e Marina Ingoglia, impegnati sul caso. Gli imputati sono arrivati a Palermo insieme ad altri 80 superstiti il 15 aprile 2015, tratti in salvo da morte certa nel canale di Sicilia da una nave battente bandiera panamense, la Ellensborg, che li ha recuperati la notte del 13 aprile. A partire dalla Libia sarebbero stati fra i 100 e i 130, secondo le dichiarazioni. Mentre a morire, per l’accusa, furono in nove: sei ghanesi e tre nigeriani. Ma potrebbero anche essere molti di più, visto l’impossibilità di stimare un numero esatto dei migranti a bordo del gommone.
Per i magistrati, che basano l’impianto accusatorio sulle dichiarazioni di sei ghanesi e due nigeriani sopravvissuti alla disgrazia, gli imputati avrebbero ucciso spinti dall’odio religioso: quelli originari di paesi francofoni – e quindi il Senegal, la Costa d’Avorio e il Mali – avrebbero aggredito e buttato in acqua i migranti anglofoni, cioè ghanesi e nigeriani. «A mio parere le cose non stanno così». Ne è convinto Lorenzo Marchese, difensore di Kamarà, uno dei migranti alla sbarra. «Sono molte le irregolarità delle individuazioni delle ricognizioni che sono state fatte – spiega il legale – Per non parlare dell’inattendibilità di questi sei dichiaranti e di altre testimonianze che in questi mesi hanno fatto emergere uno scenario ben diverso, tenendo conto anche dell’evidente stato di necessità». Secondo i difensori, infatti, durante il dibattimento si sarebbe definito sempre più chiaramente lo scenario tipico di un naufragio. Scenario che avrebbe da solo contribuito, secondo loro, alla morte dei nove migranti spariti in mare.
«Il gommone su cui viaggiavano era partito la sera di sabato 11 aprile dalla Libia, si è forato sul davanti già domenica 12. Poi sarebbero sorti questi litigi e problemi a cui allude la Procura fra le persone a bordo. Ma – prosegue l’avvocato – teniamo presente che questa imbarcazione era grande circa 11 metri, quindi poteva contenere al massimo 60 persone, in maniera molto stretta. Insomma, in questa vicenda i numeri parlano chiaro». Sgonfiandosi a poco a poco, tutta la parte anteriore veniva tenuta da tre persone che si davano il cambio, ma la situazione peggiorava di ora in ora: «Imbarcava acqua, era arrivata fino alle loro ginocchia e più passava il tempo, meno le persone a bordo sapevano se qualcuno sarebbe andato a recuperarli e salvarli. Non avevano cibo e bevevano l’acqua del mare». Tutti elementi, quelli tirati in causa da Marchese, che descriverebbero il tipico scenario di un naufragio.
Il processo si avvia alle battute conclusive. Oggi saranno tre avvocati della difesa a darsi il turno in aula: «In questo momento storico parlare di odio religioso per la Procura è facile, punta su un argomento molto sentito in questi anni e che in un certo senso fa presa – dice – Queste persone vengono trattate dallo Stato italiano come dei numeri, non come i ragazzi che in realtà sono». Gli imputati, infatti, sono giovani di 19-20 anni, scappati dai paesi d’origine. «Durante i mesi di dibattimento mi sono reso conto che si parla di cose, etnie, culture e tradizioni che la gente assolutamente sconosce, e di quelle che oggi, soprattutto per colpa nostra, sono terre di nessuno». L’avvocato dalla sua, però, ha una personale esperienza di vita che lo lega all’Africa, che ha attraversato in lungo e in largo nel 2010, conoscendone terre, villaggi e tribù. «Del mio cliente non si sa con esattezza neppure l’età – conclude – Dobbiamo capire che le cose nei loro paesi non funzionano come da noi, non esistono uffici dell’anagrafe per esempio, quando arrivano qui gli affidano una data di nascita indicativa. Si tratta di scalfire la mentalità delle persone che dovranno giudicarli».