I due sono tra i 21 fermati dell'operazione di ieri. Il loro destino potrebbe ricalcare quello di Filippo Guttadauro e Vincenzo Panicola, entrambi coniugi di altre due sorelle del superlatitante. Finora mai condannati per associazione mafiosa, per gli inquirenti da tempo avrebbero assunto ruoli di vertice nella famiglia
Cosa nostra, vita da cognati di Messina Denaro L’autorità esercitata da Como e Sariddu Allegra
Essere cognato di Matteo Messina Denaro non è una cosa facile. Ma soprattutto prima o poi porta a finire in galera essere anello fondamentale nella catena di comando di quel boss del quale non si sa più nulla da 25 anni. O meglio, che da tanto è diventato invisibile, perché poi la sua presenza sul territorio sembrerebbe sentirsi, eccome. A confermarlo sono le oltre ottocento pagine del decreto con cui è stato disposto il fermo di 21 affiliati alle famiglie mafiose del Trapanese. Tra di loro ci sono anche Gaspare Como e Rosario Allegra, mariti rispettivamente di Bice e e Giovanna, due delle quattro sorelle di Messina Denaro. Entrambi sono accusati di ricoprire un ruolo di vertice – Como è ritenuto il reggente del mandamento di Castelvetrano – in seno a Cosa nostra trapanese. Il loro destino ricorda quelli dei cognati Filippo Guttadauro e Vincenzo Panicola – coniugi delle altre due sorelle della primula rossa, Rosalia e Patrizia -, già condannati in via definitiva per associazione mafiosa. In due momenti diversi, ma sempre per lo stesso motivo: avere portato avanti gli affari della famiglia mafiosa, sotto le direttive del superlatitante. Il procuratore capo di Palermo Francesco Lo Voi ieri mattina, in conferenza stampa, ha sottolineato come Messina Denaro abbia costruito la propria rete di sodali tenendo a mente l’importanza dei legami familiari. Non solo nel senso di appartenere allo stesso gruppo criminale, ma come rapporti di sangue anche se, nel caso dei cognati, si tratta di affetti acquisiti.
A onor del vero, guardando i curriculum criminali di Como e Allegra, rispettivamente 49 e 64 anni, un distinguo al momento va fatto: entrambi a oggi non hanno condanne definitive per associazione mafiose. Arrestati a fine anni Novanta nell’operazione Terra bruciata per il reato previsto dall’articolo 416 bis del codice penale, il tribunale di Marsala riqualificò il capo di imputazione in associazione a delinquere, con i giudici che comunque rimarcarono che le azioni criminali fossero state commesse «anche in virtù della parentela con i Messina Denaro». Quasi vent’anni dopo, in mano ai magistrati della Dda di Palermo sembrano esserci elementi più chiari per affermare il ruolo assunto dai due all’interno della gerarchia mafiosa, al punto da avere l’opportunità di entrare in contatto diretto con il superlatitante. La consapevolezza del proprio status emergerebbe da diversi fattori, comprese le accortezze per tentare di sottrarsi alle attenzioni delle forze dell’ordine. In tal senso è soprattutto Como a mostrare una particolare prudenza. Quando Giuseppe Tilotta, anche lui fermato ieri, per rassicurarlo gli dice che nei momenti importanti è solito consegnare il proprio telefono a terzi – «se devi fare un imperugghiolo, lo dai uno: “Tu vattene a Palermo, che poi loro (le forze dell’ordine, ndr) prendono le celle”» -, Como ammette di essere riuscito praticamente a rinunciare ai cellulari. «Sono due anni e mezzo… non mi viene neanche più di cercarlo», rivela.
Per la gestione degli affari del mandamento, il 49enne avrebbe preso anche altre cautele: dalla scelta dei luoghi in cui organizzare gli incontri all’attenzione nel non lasciare tracce di alcun tipo. «La qualsiasi cosa, tu i vestiti quando hai finito li devi bruciare. Oppure fumare in un posto, anche sputare… mai! Niente!», dice Tilotta. E Como, soddisfatto, concorda: «Neanche la saliva». Il reggente del mandamento avrebbe avuto in Tilotta un uomo fidato. Ed è così che durante un incontro in un negozio di abbigliamento gestito da Como, lo stesso Tilotta, prima di andare via, gli dice: «Dammi una scatola di camicie vuota, ci sono le telecamere lì… mi vedono uscire». Como – conosciuto nell’ambiente criminale con lo pseudonimo di Panda in omaggio al modello di auto guidato per diverso tempo – avrebbe mantenuto lo status di reggente anche nel periodo in cui era finito ai domiciliari per il reato di intestazione fittizia di beni. Il suo potere si sarebbe affermato anche nelle relazioni con i responsabili delle altre famiglie. Come nel caso di Domenico Scimonelli, uomo d’onore di Partanna di recente condannato all’ergastolo per essere mandante dell’omicidio di Salvatore Lombardo, ma anche di Vincenzo La Cascia, figura di riferimento a Campobello di Mazara. Con quest’ultimo Como si trova a gestire un momento di tensione per una somma di denaro che uno degli affiliati avrebbe trattenuto per sé, invece di farla arrivare alla famiglia di Castelvetrano.
Nell’inchiesta, che sul campo si è avvalsa del lavoro di polizia, carabinieri e Dia, vengono riportate diverse vicende che avrebbero visto Como chiamato a dirimere controversie di natura economica. Si va dal mettere in riga un imprenditore – «lui deve mantenere le cose che noi altri gli diciamo» – che a torto si sarebbe lamentato dei prezzi imposti da un fornitore legato alla famiglia mafiosa a una querelle sulla lavorazione delle olive, fino al litigio tra due pastori entrati in contrasto in merito all’occupazione dei terreni. Per quest’ultima disputa sarebbe stata valutata anche la formazione di una commissione giudicante, lasciando come ultima ratio il ricorso alle armi da parte dei due contendenti. A riprova della vicinanza del 49enne al cognato superlatitante – Como avrebbe avuto un ruolo nello smistamento dei pizzini – c’è poi un episodio che coinvolge dei giornalisti, giunti a Castelvetrano in seguito alla diffusioni di voci sulla presunta morte di Messina Denaro. Scena che avrebbe suscitato l’ironia di Como: «Ma perché non lo lasciano in santa pace. Dicono che è morto, ma come?», commenta ridendo.
Pur non arrivando al punto di guidare il mandamento come il cognato, anche Rosario Allegra avrebbe avuto la possibilità di fare valere la pesante parentela. Conosciuto come Saro o Sariddu, viene ritenuto dai magistrati palermitani «punto di riferimento per i singoli sodali,
soprattutto per la risoluzione di problematiche interne» alla famiglia. Il 64enne avrebbe inoltre dimostrato un notevole fiuto nella gestione di attività imprenditoriale, sfruttando la possibilità di intestarle a persone di fiducia. Questo il caso, per esempio, di una pizzeria a Selinunte o di un outlet a Castelvetrano. Allegra avrebbe avuto anche il rispetto di personaggi di spicco come Cinuzzo Urso, killer della famiglia di Campobello di Mazara. A quest’ultimo fa sapere di essere in grado di interloquire con Messina Denaro, dimostrando al contempo – a confermarlo ai magistrati è il collaboratore di giustizia Lorenzo Cimarosa – di potere autorizzare le estorsioni.
Il marito di Giovanna Messina Denaro avrebbe avuto nella gestione dei centri scommesse il principale business. In questo settore sarebbe stato l’erede del nipote Francesco Guttadauro. A Castelvetrano, Allegra avrebbe avuto come uomo di riferimento il 32enne Carlo Cattaneo, il quale in cambio della protezione avrebbe corrisposto alla famiglia mafiosa locale diverse somme di denaro. Nello specifico Cattaneo, anche lui fermato nell’operazione, avrebbe assunto i figli di Allegra, pagato un contributo di duecento euro mensili per ogni agenzia di scommesse aperta a Palermo e versato periodicamente delle cifre dirette da una parte al nucleo familiare di Messina Denaro e dall’altra a contribuire alla sua latitanza. Gli affari con i centri scommesse sarebbero stati gestiti da Allegra in pieno stile mafioso. «Loro devono sottostare a quello che gli dico io, quando decidiamo noi gli diamo qualche coso. Quando decidiamo noi, però!», dice il 64enne in una conversazione che gli inquirenti definiscono emblematica. Degna di chi è il cognato di Messina Denaro, nonostante ciò che questo finora ha sempre comportato.