Corleone, chiede aiuto alla mafia per l’eredità contesa Piano per uccidere il rivale: «Per dare furcunate si va»

«Allora, come lui scende, gli faccio la festa, subito». Sono le parole che Pietro Paolo Masaracchia, detto zu Petrino, dice la sera del 15 settembre 2014. Nell’ambiente mafioso è conosciuto con il soprannome di killer per la sua spietatezza. Mentre descrive la scena, si trova all’interno di un’auto insieme al suo amico Vincenzo Pellitteri, anche lui con un ruolo preciso: avrebbe dovuto seguire la vittima, studiarne i movimenti e le abitudini. Sopralluogo che avviene il giorno dopo: «Io già di quella cosa sono andato ieri, verso là…», dice intercettato Pellitteri. Insieme ai due c’è anche Gaspare Gebbia, ritenuto dai magistrati l’istigatore e mandante del tentato omicidio di un bracciante agricolo insieme al figlio Pietro, che sarebbe stato coinvolto nel progetto. A ispirare il piano, scoperto dagli inquirenti nell’ambito dell’operazione Grande Passo 4, sarebbe stato un motivo personale: Gebbia si sarebbe rivolto alla mafia per risolvere una spinosa questione di eredità e successione di un terreno con relativa azienda agricola lasciato ai nipoti dalla defunta zia Vincenza Gebbia.

In mancanza di un testamento scritto, il feudo andrebbe a Gaspare e alla cugina, Giuseppa Nicoletta Gebbia. Quest’ultima, però, dopo una gestione fallimentare da parte del cugino, decide di affidare la conduzione dell’azienda a un bracciante. E, soddisfatta del lavoro dell’uomo, lo inserisce tra gli eredi. Decisione che avrebbe innescato il risentimento del cugino e co-erede Gaspare. Il lavoratore, dunque, doveva essere estromesso. A ogni costo, pare. Così Gaspare Gebbia si sarebbe rivolto a Masaracchia. «Per dare le furcunate si va e non si sa quello che può succedere, può essere che questo muore», lo avverte zu Petrino, ma Gebbia sembrerebbe non mostrare segni di ripensamento. Un’ipotesi, quella dell’omicidio, che avrebbe preso sempre più corpo nel tempo e nelle discussioni intercettate tra i due.

Gli inquirenti, grazie alle intercettazioni ambientali e al pedinamento delle auto, riescono a scoprire ulteriori dettagli del tentato omicidio. Come, ad esempio, il luogo prescelto per l’agguato. «Devo andare a guardare questo cancello, mi devo fermare a questo abbeveratoio, inquadrare bene…», dice Pellitteri, riferendosi all’ingresso di una proprietà di Contessa Entellina e indicando la presenza di un abbeveratoio che sarebbe servito ai due presunti sicari per nascondersi al momento dell’aggressione. Si scopre anche che i due avrebbero avuto in mente di depistare gli inquirenti facendo passare l’episodio come un delitto passionale, posizionando un paio di scarpe da donna vicino al cadavere: «Quella cosa della femmina mi è piaciuta! Poi si prendono le scarpe, la macchina è qua, lui è a terra e si buttano là vicino», spiega così la simulazione Masaracchia, che con Gebbia stabilirebbe anche il compenso per il tentato omicidio: «Esci tremila euro e si è chiusa qua». 

Il piano fallisce per l’intervento degli inquirenti, che arrestano zu Petrino pochi giorni dopo queste conversazioni, il 23 settembre 2014. Il suo complice, invece, verrà incarcerato il 20 novembre 2015. Per i due Gebbia, padre e figlio, a scattare è la sola misura della libertà vigilata per almeno due anni in quanto presunti mandanti di un reato che alla fine non si è consumato.


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