Copie d’autore

 

Tu mi dai una cosa che è tua. Anzi me la prendo da solo. Adesso che è mia non è più tua. Anche se in realtà non è solo mia. E’ anche tua. Ma non è quella che era prima. Anche se è la stessa. Sembra qualcosa tra l’ammisione di follia e uno scioglilingua, ma forse non è proprio così.

Knockin on a Heaven’s door” dei Gun’s and Roses? Ecco, quella non era una cosa loro, non proprio. Era, anzi è, una canzone di Bob Dylan. Eppure molti hanno conosciuto per prima, o forse solamente, la versione di Slash e soci.

Like a rolling stone” dei Rolling Stones? Qui è quasi omonimia, la risposta sembra scontata. Eppure anche questa è di Bob. Ancora una rielaborazione che forse ha raggiunto una celebrità maggiore dell’originale (ho detto forse).

Questi esempi servono a far capire due cose.

Uno. Si può prendere in prestito da qualcun altro un testo e un titolo, una melodia e quattro accordi e una volta passati di mano diventano qualcosa di diverso. Qualcosa di unico, anche se non del tutto originale. Unicità senza originalità.
Forse questo mix è l’alchimia perfetta che sta alla base di una di quelle operazioni che band e artisti di ogni genere eseguono da sempre; le cover (letteralmente significa coperchio, musicalmente sta per “versione” intesa come adattamento, arrangiamento, rielaborazione).

Due. Gioco forza a essere oggetto di rielaborazione sono spesso brani e artisti che godono di fama mondiale. Si copia da quelli bravi in fondo. E non a caso Bob Dylan è uno degli autori più coverizzati della storia della musica, anche se il primato spetta ai Beatles con Yesterday (4000 rifacimenti). Ma anche i FabFour non hanno resistito alla tentazione, e hanno così prodotto una trentina di cover. Sembra qualcosa di irresistibile.

Esistono diversi modi per rifare un pezzo. Ci sono quelli che non hanno altro intento se non l’omaggio a un grande artista e uno dei suoi successi, senza quindi intervenire sulla melodia, sugli accordi e sulle parole (viene in mente Mind Games di John Lennon nella versione di Manuel Agnelli degli Afterhours e Cristina Donà).

Poi ci sono quelli che invece agiscono sullo strato musicale originale coprendolo con un sound nuovo, diverso anche per genere, potenzialmente distante tanto quanto lo sono la musica folk e quella metal, e allora eccovi Wiskey in the Jar, famosa per la versione dei Metallica ma in realtà celebre canzone popolare irlandese portata alla ribalta da artisti quali The Dubliners e The Pogues.

Da questo discorso eliminiamo subito un certo modo di fare, un po’ all’italiana, dove si “adattano” testo e titolo originali, traducendoli con la stessa illogica fantasia adoperata per i film stranieri. Esempio musicale: Nothing else Matters dei Metallica diventa Non me ne frega niente; prendetevela con Marco Masini. Esempio cinematografico: Eternal Sunshine of the Spotless Mind diventa incomprensibilmente, Se mi lasci ti cancello.

Se si dovesse scegliere una canzone per provare a spiegare in maniera più chiara questo ragionamento la scelta cadrebbe senz’altro su All Along The Watchtower che molti credono sia una delle più belle canzoni di Jimi Hendrix. Molti si sbagliano.

E’ anche una delle più belle canzoni di Bob Dylan. Ancora lui.

La canzone nasce due volte, la prima nel 1967 grazie a Dylan (l’album è John Wesley Harding) e poi nel 1968 con Hendrix (Electric Ladyland).

Questa sorta di circolo vizioso continua e il chitarrsita di Seattle vanta, tra le sue produzioni, una delle canzoni più coverizzate; Little Wing, rifatta praticamente da tutti, da Eric Clapton ai Pearl Jam arrivando a quella in stile Irish dei Coors.
Leggenda vuole che Dylan si trovasse in un taxi quando ascoltò per la prima volta la versione di quello che viene considerato il miglior chitarrista di tutti i tempi, e ne rimase incantato dalla rielaborazione degli accordi e dalla potenza degli assoli.

La reazione fu tanto favorevole che da allora anche Dylan cambiò la sua versione, che da quel momento in poi suonerà in modo nettamente più rock.

Senza nulla togliere a questo, che forse è il primo caso di “autocoverizzazione”, il parallelo interessante è tra la prima versione Dylaniana (quella orignale ma ora non più unica), e quella Hendrixiana.

La prima è acustica, country, malinconica e arrabbiata. Dylan spreca aria e secondi sufficienti per pronunciare appena le parole, “strascitate” e legate dall’immancabile suono dell’armonica, marchio di casa.

La seconda, è psichedelica, blues, sognante e irriverente. La concentrazione di Hendrix è tutta negli accordi e nei “suoi” giri di note che aprono e chiudono ogni strofa.

Dylan resiste appena 3 secondi, contateli, ed è subito armonica. Hendrix riesce addirittura ad attenderne 9 prima di piazzare l’assolo.

Sono evidentemente due cose diverse, sin dall’inizio. Ma sono anche la stessa cosa. Chissà perché.


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