Nel Catanese le imprese che si sono messe assieme per lavorare meglio sono 42. Numeri bassissimi rispetto a quelli del resto d'Italia in cui s'è capito che la forma contrattuale introdotta nel 2009 è una «possibile soluzione operativa alla crisi». «Quando un'azienda agrumicola locale tenta di entrare da sola nel mercato globalizzato è arrogante nei confronti del mondo», sostiene Pietro Agen, presidente della Confcommercio regionale
Contratto di rete, questo sconosciuto «Colpa dell’atavica diffidenza dei siciliani»
«È una delle possibili soluzioni operative per superare questo momento di crisi, eppure è uno strumento giuridico che in Sicilia è stato lasciato da parte. In Lombardia e in Emilia Romagna, per esempio, ha funzionato. Perché qui no? Un po’, certamente, è colpa dell’atavica diffidenza dei siciliani». Carlo Cocina, responsabile della comunicazione dell’associazione Gea, professionisti italiani riuniti, individua principalmente nel carattere dei cittadini di Catania e in generale degli isolani la ragione per la quale le piccole e medie aziende presenti sul territorio non fanno rete.
E questo nonostante l’esistenza, dal 2009, di una forma contrattuale regolamentata dalla legge e che, a scanso di equivoci, si chiama proprio «contratto di rete tra imprese». In soldoni, permette alle imprese di aggregarsi liberamente, in modo organizzato e più o meno duraturo, lasciando a ciascuna la propria individualità e la propria autonomia. A patto, però, che le imprese che aderiscono abbiano tra i propri obiettivi l’accrescimento della propria competitività sul mercato e l’innovazione tecnologica dei propri metodi. «Non è soltanto un modo per associarsi senza costituire nuove società o consorzi prosegue Cocina ma è anche un’occasione per partecipare con più forza a bandi dell’Unione europea o del ministero dello Sviluppo economico».
Uno strumento dal potenziale non sfruttato, del quale s’è parlato ieri pomeriggio nell’aula adunanze del tribunale di Catania, nel corso di un convegno accreditato dagli ordini degli avvocati e dei commercialisti etnei. «Vi faccio un esempio prende la parola Antonello Biriaco, vice presidente vicario di Confindustria Catania la mia famiglia gestisce cantieri navali da cinque generazioni. Se sono da solo, i miei fornitori mi fanno un prezzo e mi applicano una percentuale di sconto, se sono assieme ad altri cantieri, invece, la storia cambia e il prezzo lo facciamo noi. Il vantaggio è indubbio, no?». E per quanto l’unione faccia la forza, i numeri di contratti di rete in Sicilia non lasciano ben sperare: in tutto sono 34, per un totale di 42 imprese coinvolte nel Catanese e 100 in tutta l’Isola. «Alle nostre aziende a volte viene difficilissimo il passaggio di consegne generazionale si rammarica Biriaco figurarsi se accettiamo di condividere i numeri dei bilanci con altre aziende». Eppure, nei settori delle energie rinnovabili e della ristorazione qualcosa sembra muoversi. «Sono le reti che vanno meglio, quelle che hanno capito che devono essere forti nei confronti dei mercati».
I sempre presenti mercati, quelli che ci fanno sognare «la grande azienda multinazionale, dimenticando che il tessuto economico italiano è fatto di piccole e medie realtà», sottolinea Pietro Agen, presidente di Confcommercio Sicilia. «Quando un’azienda agrumicola siciliana tenta di entrare da sola nel mercato globalizzato sostiene Agen commette un errore di arroganza nei confronti del mondo, perché anche se lo crede non ha nessuna speranza di essere competitiva». Secondo il fu assessore al Commercio (nella prima giunta Scapagnini), «sugli scambi con l’estero le reti non hanno risolto il problema della crisi solo perché non sono state fatte». Il riferimento è quello all’olio d’oliva e ai vini siciliani: «Le nostre aziende vitivinicole non producono abbastanza per insidiare i grossissimi produttori del resto del mondo. Se lavorassero insieme, invece, aggiungerebbero la quantità alla qualità».
[Foto di gualtiero]