Consolazione, nelle carte dell’inchiesta gli affari dei Pillera «Non possiamo fare gli scicati, ci vuole un colpo di pistola»

Piazza Cavour, da tutti conosciuta semplicemente come ‘u Buggu. Un tempo quartiere periferico di Catania, oggi cuore pulsante del capoluogo etneo. È in questo pezzo di città che avrebbero organizzato i loro affari gli uomini del clan mafioso dei Pillera-Puntina. L’indagine, culminata ieri nel blitz denominato Consolazione e che comprende un periodo antecedente la pandemia, ruota attorno alla figura di Fabrizio Pappalardo. Pregiudicato, con tre condanne sulle spalle per associazione mafiosa, contro di lui hanno puntato il dito diversi collaboratori di giustizia. Tra questi c’è Salvatore Messina, ex esponente dei Pillera-Puntina. «Pappalardo è uno dei soci fondatori del gruppo del Borgo», ha raccontato il collaboratore di giustizia in un verbale del 2018. Ruolo che gli avrebbe consentito di avere rapporti privilegiati, secondo Messina, con altri gruppi criminali attivi in città. «Era stato Pappalardo a fare l’alleanza con i Santapaola del quartiere Picanello e con il gruppo dei Nizza», continua il collaboratore facendo riferimento, come emerge nelle oltre 300 pagine dell’ordinanza di custodia cautelare firmata dal giudice Pietro Currò, a un’estorsione che avrebbe avuto come vittime i titolari della rinomata pasticceria Quaranta, in piazza Mancini Battaglia a Ognina.  

Il gruppo dei Pillera-Puntina, secondo i magistrati della procura di Catania, avrebbe allungato i tentacoli sulla pasticceria almeno dal 2014. Alla vigilia di Natale di quasi dieci anni fa, la polizia fermò il fratello di Pappalardo all’uscita del bar con 1600 euro in contanti, soldi avvolti in un foglietto in cui era scritto un promemoria riguardante delle ceste, cinque per l’esattezza, da 180 euro ciascuna che dovevano essere consegnate. Partendo da questa vicenda, per il quale Roberto Pappalado è stato arrestato in flagranza e poi condannato, gli inquirenti hanno ricostruito i contorni della storia facendo emergere, secondo l’accusa, il coinvolgimento anche di Carmelo Faro, Salvatore Messina – poi diventato collaboratore di giustizia – e del presunto reggente Fabrizio Pappalardo. I tre, secondo quanto riportato nei documenti dell’inchiesta, si sarebbero presentati nella pasticceria già a Pasqua 2014 «per chiedere un regalo di 2500 euro per i detenuti» da corrispondere in quel periodo e a Natale. 

A proposito dei legami con i protagonisti del panorama criminale etneo c’è da dire che non sempre per i Pillera le cose sarebbero andate a gonfie vele. Colpa di una manovalanza di basso livello, incapace di rappresentare adeguatamente i vertici. In una delle intercettazioni dell’inchiesta emerge per esempio «la necessità di ripristinare il controllo nel quartiere», anche facendo ricorso alle armi. «Vedi che le armi ci sono, le ha mio genero. Sono corte e ce le dovremmo fare dare», diceva Giuseppe Saitta, conosciuto come bimbo, a Pappalardo. «Noialtri non le possiamo fare queste figure – si lamentava il presunto reggente – è come se siamo gli scicati». «Mpare qua ci vuole un colpo di pistola – replicava Saitta – non per fare solamente male […] a male estremi, estremi rimedi».

Il ruolo apicale di Pappalardo emergerebbe anche nella vicenda di un recupero crediti ai danni di un imprenditore di una ditta edile, debitore di circa 20mila euro ricevuti a usura. Secondo la ricostruzione degli inquirenti a occuparsi di recuperare i soldi sarebbe stato Pappalardo «atteso che i creditori – si legge nel documento – erano persone di un certo spessore criminale», probabilmente orbitanti in altri clan, tra cui i Cappello. «Mi hanno chiamato duecento persone – si lamentava Pappalardo – prende i soldi a usura con le persone… e poi ci scassa la minchia». Uno dei creditori sarebbe stato un nipote dell’ergastolano Francesco Egitto (non indagato, ndr). 

Il gruppo dei Pillera-Puntina sarebbe stato responsabile anche di una spedizione punitiva, risalente al 2015, nei confronti di un panificio in via Orto dei Limoni, non distante da piazza Cavour. Dietro i fatti il mancato versamento della liquidazione, dopo il licenziamento, a una dipendente, parente diretta della famiglia Faro. Un primo incontro, davanti la porta dell’attività commerciale, si conclude con uno schiaffeggiamento e un nulla di fatto. Circa venti minuti dopo all’interno del panificio si presentano dieci persone, tra loro secondo gli inquirenti ci sarebbero stati anche Pappalardo e Massimo e Carmelo Faro. Dopo avere fatto uscire i clienti «hanno spaccato tutto», si legge in un verbale inserito nelle carte dell’inchiesta. Uno dei dipendenti venne prima colpito con un casco e poi costretto a chiudersi all’interno del bagno dell’attività commerciale. Undici giorni dopo però la questione sembra essere «sistemata». In un’intercettazione tra il titolare e il padre, quest’ultimo spiega al figlio «di avere incontrato Fabrizio – si legge – Dice se gli puoi fare il conto a quella ragazza… e poi ci avvicini. Ci puoi andare tranquillamente». Parole che per i magistrati – l’inchiesta è stata coordinata dal procuratore aggiunto Ignazio Fonzo e dalle sostitute Assunta Musella e Antonella Barrera – sarebbero state il preludio alla consegna della somma richiesta a titolo di liquidazione per l’ex dipendente del panificio. 


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