Di guido valdini
Con Collovà Joyce diventa un affresco mentale
di Guido Valdini
Il gelido flusso mentale delle parole di Joyce risuonano su un caldo tessuto visivo di apparizioni ordite con raffinata scansione musicale. Epica e quotidiano, coscienza ed emozione sono i due livelli su cui gioca la sua partita Telemachia – Ulyssage # 3, lo spettacolo di Claudio Collovà in scena fino al 7 aprile alla Sala Strehler del Biondo e prodotto dal Teatro Stabile, tratto dal capolavoro dello scrittore irlandese: quellUlisse (1922) caposaldo della letteratura del Novecento, considerato il superamento della forma-romanzo e testo sterminato di apparentemente assoluta anti-teatralità. (a sinistra, foto tratta da lapisnet.it)
Ma non per Collovà, che qui giunge allultimo atto della sua trilogia su Joyce (dopo Uomini al buio – Ade del 2010 e Artista da giovane del 2011, sempre prodotti dal Biondo), senza dubbio il più riuscito dei tre, in una sfida ardua e tenace per riconsegnarne il senso profondo in una dimensione immaginifica.
In Telemachia – Ulyssage # 3 (metafora di un Telemaco moderno alle prese con gli usurpatori della sua patria), la disillusione dellartista ribelle in rotta con la società ed i suoi conformismi ideologici e religiosi nellIrlanda razzista di quegli anni del secolo scorso sincontra con il girovagare ozioso delluomo mediocre in preda alle sue ossessive frustrazioni.
Ma non è uno scontro quello fra Stephen Dedalus e Leopold Bloom, il giovane esule e lanziano e vacuo perbenista, bensì un continuo rimandarsi limmagine del fallimento, il riconoscimento dellimpossibilità dellinnocenza. Che è, poi, la rivelazione epifanica del segreto di ogni anima in ogni tempo: persino, fra i tanti, quello che nasconde in Dedalus la ricerca del padre (come nellomerico Telemaco) o il senso di colpa per la sua indifferenza nei confronti della morte della madre o, ancora, il tarlo che rode Bloom per il tradimento della moglie Molly. Ed ecco che, allora, con una felice intuizione registica, il centro della scena è dominato dallinizio alla fine da una bara dove riposa una bellissima donna ricolma di fiori che sembrano emanare il tanfo appassito della morte, come uninquietante e romantica icona preraffaellita, la cui immagine è riflessa da uno specchio sovrastante: segno di forza prorompente e di molteplicità simbologica, essa è anche lOfelia shakespeariana, sacrificio del candore femminile.
Perché Dedalus – Telemaco è anche secondo una plausibile lettura di Collovà un po Amleto, lintellettuale anarchico che, contro il marcio della reggia di Elsinore, scuote la sua ribellione, rivendica la sua libertà destabilizzatrice. E come Amleto nella sua solitaria follia, finisce con lo sbattere nella sua sterile incapacità di azione. Ma anche come Cristo (o, aggiungerei, il puro Parsifal), egli è lagnello sacrificale della Storia vissuta come incubo, il paria che accoglie sulle sue spalle di dolore il male di un mondo che cavalca la rovina (profetica anticipazione joyciana della seconda guerra mondiale). (a destra, Claudio Collovà: foto tratta da teatrobiondo.it)
Nella sua ricerca allinterno delloceano – Ulisse, Collovà ha messo insieme alcuni episodi di una piccola odissea in chiave eroicomica: il rapporto di Dedalus con il falso amico Mulligan, la sua intolleranza per linsegnamento in una scuola diretta da un preside razzista, i vani monologhi di Bloom e il suo bagno ristoratore mentre si accinge ad andare a un funerale, lincontro fra Stephen e Leopold, il loro definitivo distacco. Unodissea dallinfinito malessere, ma fascinosamente percorsa da un elemento ambiguo, vitale e limaccioso come lacqua, su cui incespicano i passi, che ristora il corpo di Bloom, che purifica il corpo di Dedalus – Cristo.
In una drammaturgia non sempre risolta dalla cucitura dei frammenti, che talora nuoce alla fluidità del racconto, lo spettacolo si fa ammirare per la sua dimensione pittorica, per la sua ricchezza simbolica e figurativa, magari con un eccesso di suggestioni formali che sfiorano un manieristico autocompiacimento e ne indeboliscono la misura; ma è ad un tempo attentissino ai particolari, sia nella composizione strutturale dello spazio, sia nel disegno delle varie scene che emergono dal nulla, evocate solo grazie ai movimenti degli attori e senza bisogno di alcun oggetto.
Molto interessante la scenografia di Enzo Venezia, un’ampia biblioteca-ragnatela di antichi fogli, sapienza e vanità di una cultura in decadenza. Qui, tra i tagli di luce di tenebrosa efficacia di Pietro Sperduti, e negli echi remoti delle sonorità musicali di Giuseppe Rizzo, i tre attori rendono una prova di grande bravura. Soprattutto Sergio Basile, un Bloom di rara intensità che restituisce con straordinaria naturalezza lemotività interna del mosaico mentale joyciano; e poi, Domenico Bravo, un Dedalus di attonita e nevrotica espressività; mentre Luigi Mezzanotte conferisce ai suoi personaggi (Mulligan, Mr. Deasy, il Cittadino) il ghigno espressionista della minaccia che soffia sul destino delluomo.