Lultimo lavoro di Gabriele Salvatores indica le coordinate geografiche e la cornice della possibile dimensione urbana prossima ventura. Un film nel quale non si cercano cause ma conseguenze. Quelle dei nostri tempi
“Come Dio comanda” o l’incubo del caos
Dopo “Io non ho paura” Salvatores prende di nuovo in mano una storia di Niccolò Ammaniti, questa volta dal libro “Come Dio comanda”. Si tratta di un altro inabissamento nel cuore nero della provincia italiana: siamo dalle parti di un indefinito Nord, dove la pioggia e il grigio sono perenni. Rino è il giovane padre del quattordicenne Cristiano. Senza lavoro, senza speranze, senza aspettative, si dedica alla birra e alla maschia educazione del figlio: il rinopensiero contempla il culto del nazismo, l’odio equamente distribuito tra ebrei, neri e slavi, l’attaccare per primi e non molto altro. Salvatores descrive un universo ai margini popolato da tipi strani come lo svitato “4 formaggi” (interpretato da Elio Germano), da ragazze audaci e frivole munite di ipod, da genitori assenti.
Su questo scenario il regista innesta il racconto di una paternità intransigente e complice, non lontana da forme di attaccamento morboso. Cristiano ha come unico riferimento il padre violento e possessivo in lotta col mondo e con l’assistente sociale (un Fabio De Luigi che nei ruoli drammatici non è al massimo; non riesce con sufficiente istrionismo ad abbandonare il terreno del comico senza microlesioni nell’espressione), ma un padre capace, in un modo malsano, di provare profondo affetto. Il disadattamento della provincia italiana può generare mostri: non sempre resta sopito tra le pieghe di una società in bilico, non ancora metropolitana, né più contadina. E come spesso la cronaca contemporanea ci mostra, l’insofferenza, il disagio e il malessere di un mondo dall’identità fragile e indecisa possono sublimarsi in lampi di una violenza improvvisa, senza ragioni apparenti.
“Come Dio comanda” non cerca di spiegare la violenza, non ne indaga le cause, se non marginalmente; prova invece a immaginare, in un orizzonte non troppo remoto, le conseguenze di un vuoto culturale e dell’assenza di comunicazione reale tra gli individui e le generazioni. E’ un film pessimista che non dà scampo, nessuno assolve. La deriva nichilista che regola i rapporti, Salvatores la sbatte in faccia come un fatto. Solo la vendetta può stabilire un senso nel caos di una civiltà forgiatasi all’individualismo e all’indifferenza. L’unica logica coerente con l’homo homini lupus è quella di colpire più forte e più in fretta l’altro. “4 formaggi”, lo scoppiato appassionato di modellistica e pornografia, è insieme la vittima e il carnefice di quest’ingranaggio sfuggito di mano: assomma ed esaspera le nevrosi di un intero luogo, contribuisce a renderle manifeste e intelligibili.
Il film di Salvatores è una sorta di lungo, lucido incubo. La fotografia di Italo Petriccione coglie bene il senso di un paesaggio per nulla ospitale. Impianti industriali quasi dismessi, centri commerciali affollati, una chiesa asettica e fredda, una discoteca assordante e lugubre, la casa del protagonista con una bella svastica alla parete: ecco le coordinate geografiche e la cornice della possibile dimensione urbana prossima ventura.