«Ora vediamo dopo questa morte cosa deve succedere». Parlava così Tommaso Inzerillo, intercettato mentre incontrava Settimo Mineo, ritenuto dagli investigatori come il successore di Salvatore Riina alla guida della nuova commissione provinciale di Cosa nostra. E la morte a cui fa riferimento è proprio quella del capo dei capi, che avrebbe potuto scrivere definitivamente la parola fine sul regno dei Corleonesi e dare nuove speranze agli scappati, i mafiosi fuggiti oltreoceano dopo avere avuto la peggio in quella che viene ricordata come la seconda guerra di mafia. Da Passo di Rigano a New York, sono oltre 200 gli agenti impegnati nell’operazione chiamata New Connection, che vede collaborare la polizia del capoluogo con l’Fbi per portare a termine i fermi disposti dalla Direzione distrettuale antimafia della procura di Palermo.
I reati contestati ai 18 fermi di stamattina sono a vario titolo quelli di associazione per delinquere di tipo mafioso, estorsione aggravata, concorso esterno in associazione mafiosa, trasferimento fraudolento di valori aggravato, concorrenza sleale aggravata dal metodo mafioso ed altro. Tra loro c’è anche un sindaco. Salvatore Gambino, primo cittadino di Torretta, un paese della provincia di Palermo, accusato di concorso esterno in associazione mafiosa. In particolare è emerso dalle indagini il forte collegamento tra gli Inzerillo e la potente famiglia newyorkese dei Gambino.
Gli altri fermati sono Tommaso Inzerillo, Thomas Gambino, Giovanni Buscemi, Francesco Inzerillo, Gaetano Sansone, Giuseppe Sansone, Alessandro Mannino, Calogero Zito, Rosario Gambino, Francesco Di Filippo, Giuseppe Spatola, Antonino Fanara, Gabriele Militello, Antonino Di Maggio, Santo Cipriano, Giuseppe Lo Cascio, Antonino Lo Presti.
Da quando lentamente alcuni scappati avevano iniziato il rientro in patria, nei primi anni 2000, ci sarebbe stata la trepidante attesa di riprendere il controllo a pieno regime dei vecchi affari. O quanto meno del vecchio status gerarchico all’interno di Cosa nostra, non solo a Passo di Rigano, dove la famiglia era tornata al vertice. Intanto i fratelli Inzerillo pare avessero una particolare influenza sull’economia legale del quartiere, secondo una capillare divisione di ruoli e mansioni: dalla fornitura alimentare all’ingrosso alle classiche estorsioni, passando per la gestione dei giochi e delle scommesse on line. Nonostante il sequestro dei beni messo a segno stamattina sia stimato attorno ai tre milioni di euro, tuttavia, il clan pagava ancora la sconfitta degli anni 80, che ne aveva oltretutto decimato le fila e lamentava l’impossibilità di esprimersi nel pieno della propria potenza. «Siamo tutti bloccati, siamo grandi», diceva ancora Tommaso a Mineo.
Un blocco che ha pesato molto sulla testa del clan, tanto che non mancano certo i momenti di nostalgia per quello che sarebbe potuto essere. «Se Stefano (Bontade ndr) restava vivo» sospirava Tommaso Inzerillo. «Li azzerava» commentava Simone Zito «… minchia, mamà! Cento picciotti. Centoventi erano con lui». Ma questo non succederà mai. Bontate viene ucciso la sera del suo 42esimo compleanno, il 23 aprile ‘81, mentre è fermo a un semaforo di via Aloi sulla sua nuova Alfa Romeo. Un omicidio che cambierà molti scenari, decretando anche l’inappellabile esilio degli scappati. Che sono in molti, anni e anni dopo, a temere, da un lato per una possibile vendetta in caso di ritorno in patria, dall’altro per la possibilità di volersi riprendere territori e affari lasciati di forza negli anni ‘80. Il primo di tutti è Antonino Rotolo, boss di Pagliarelli, ma c’è anche Antonino Cinà, il medico di fiducia di padrini e latitanti. Ma dalla parte degli Inzerillo ci sarebbero anche dei sostenitori, «una pluralità eterogenea di soggetti mafiosi, alcuni dei quali storicamente legati agli Stati Uniti d’America e alle famiglie della LCN (La Cosa nostra) statunitense», tra i quali spicca Salvatore Lo Piccolo, favorevole al loro rientro e solleticato dall’idea di una possibile alleanza.
Due schieramenti opposti, che cercavano entrambi di ottenere l’approvazione di Bernardo Provenzano. Che, dal canto suo, consapevole della profondità del contrasto in corso e del rischio che esso portasse ad episodi di violenza fino a sfociare in una nuova possibile guerra di mafia, ha evitato fino all’ultimo, pur mostrandosi in linea di principio possibilista, di prendere una posizione chiara e ha preferito invece, per evitare che la situazione precipitasse, temporeggiare ed inviare messaggi carichi di ambiguità. La difficoltà per giungere ad una decisione sull’argomento era dovuta al fatto che la questione rientrava nella competenza della Commissione, che già aveva deliberato l’esilio dei perdenti. Decisione questa che non poteva essere modificata in quanto la Commissione non poteva più riunirsi a causa della detenzione dei suoi componenti che, comunque, mantenevano ancora formalmente la loro carica.
«Io vi prego se possiamo trovare un accordo tutti insieme quelli che siamo fuori e là dove è possibile risolviamo le cose con la responsabilità di tutti – scriveva proprio Provenzano in un pizzino indirizzato a Lo Piccolo -. Il mio fine è di evitare di poterci accusare l’uno con l’altro là dove ci fosse qualcuno che potesse chiedere conto di alcune cose». Una lettera simile Provenzano l’aveva inviata anche a Rotolo, di cui si parla in una conversazione del 6 settembre 2005 intercettata dagli inquirenti che ascoltano il boss di Pagliarelli con Gaetano Sansone. «Dice, per quanto riguarda la questione degli Inzerillo dato che ormai di quelli che hanno deciso questa cosa non c’è più nessuno, siamo rimasti… a potere decidere questa cosa, siamo solo tre, io, tu e Lo Piccolo…Lui ha sbattuto la testa quando era piccolo! Cioè io, lui…… e tutti gli altri sono stracci, immondizia. Aspetta un minuto, questa qualifica a Lo Piccolo chi gliel’ha data? Perché il mandamento è a San Lorenzo e pure noi di qua riconosciamo a Nino, no a lui».
Per opporsi alla possibilità del rientro degli scappati,Rotolo si faceva forte del fatto che l’originaria decisione sul punto della Commissione non poteva essere assolutamente modificata, nemmeno con l’accordo dei tre capimafia rimasti liberi. «Loro se ne devono restare in America, fu stabilito dallo zio Totuccio R., anche se arrestato è sempre lui il capo commissione, lasciamo il discorso come stabilito all’epoca», è infatti la risposta che Rotolo, d’accordo con Cinà, fa arrivare a Provenzano. Ma di fatto quegli scappati, a un certo punto, qui ci sono tornati. A Palermo erano rimasti solo la moglie di Totuccio Inzerillo e uno dei figli rimasto vivo, Giovanni. Tutti gli altri erano fuggiti via, scappati appunto. Per poi fare ritorno anni dopo. Uno è Franco ‘u truttaturi, Francesco Inzerillo, uno dei fratelli di Totuccio Inzerillo oggi 63enne, l’altro è suo cugino Tommaso Inzerillo, di 70 anni, per gli inquirenti esponente di vertice della famiglia mafiosa di Passo di Rigano-Boccadifalco, decimata durante la seconda guerra di mafia.
Il primo veniva espulso dagli Usa il 30 settembre 1997, con rimpatrio forzato in Italia. Seguito a ruota, nel 2004, dal fratello Rosario. Ritorni che hanno subito innescato forti tensioni all’interno di Cosa nostra. Sia Francesco che Tommaso vengono arrestati nel 2006 con l’operazione Gotha, per finire poi scarcerati a distanza di pochi anni l’uno dall’altro, nel 2011 il primo e nel 2013 il secondo. «Ci possiamo fare un salto a Passo di Rigano? Arrivo e ce ne andiamo, gli devo lasciare un nominativo». Sono da poco passate le 11 del mattina del 6 marzo 2017 quando Settimo Mineo incontra i due cugini Inzerillo. Si vedono, anche se per pochissimo, al civico 81 di via Castellana, dove c’è la Karton Plastik, attività intestata alla moglie di Francesco Inzerillo. E ancora, il 10 marzo, il 22 e il 25 maggio, sempre lì, stesso posto stessa via. Incontri, i loro, che non durano nemmeno dieci minuti, ma tanto basta per discutere del necessario e congedarsi poi con un bacio.
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