CLASSIC: Ten – Pearl Jam

Pearl Jam 

TEN

(1991, Epic Sony)

 

PREMESSA

 

La contorta genesi della formazione dei Pearl Jam e del loro debutto Ten, si colloca nel solco scavato da quella realtà a metà tra genere musicale ed etichetta sociale chiamata Grunge.

Cosa abbia rappresentato il fenomeno agli inizi degli anni ’90, forse, non lo si è mai saputo del tutto, tanto che ciò che suonasse un po’ punk, un po’ metal, un po’ pop tutto assieme, ecco, questo era considerato arbitrariamente Grunge.

O forse, mandando dietro il nastro ed incidendo sopra a quanto detto prima, si potrebbe affermare che con Grunge s’intendesse e s’intende ancora oggi, quel fermento musicale di casa a Seattle ed esclusivo a questa. Dove la capitale del  nord-ovest americano divenne agli inizi del ’90 il vero e proprio epicentro di un rock sporco (grunge ‘sporco’), duro, nato, come naturale rigetto delle sonorità barocche degli eighties.

O possiamo, cancellare tutto di nuovo, dicendo che Grunge era unicamente il modo di chiamare la disillusione ed il nichilismo che l’ultima decade del secolo aveva come suo biglietto da visita. Immersi in città sempre più dominate dai complessi industriali e dalle divisioni generazionali, dal trionfo delle pubblicità e della velocità, chi incominciò a far musica negli Stati Uniti di allora, lo fece puntando direttamente al nocciolo e senza orpelli formali. Il mondo raccontato è quello veicolato e storpiato dai deliri personali e la speranza era un ricordo oramai.

Detto questo ritorniamo ai Pearl Jam e a quella genesi complessa di cui si parlava. In origine c’erano i Mother Love Bone, rock band ‘à la Guns n’ roses’ , che vedeva tra le sue fila il binomio tutto targato Seattle: Jeff Ament (basso)e Stone Gossard (chitarra), già insieme nei Green River. I MLB riuscirono ad incidere solo un Ep ed un album (“Apple”) perché nel Marzo del 1990 il cantante Andrew Wood eccedette con l’eroina uccidendosi impietosamente. Wood, oltre alla sua fine, aveva sancito anche quella della band i cui superstiti si dispersero.

Ament e Gossard decisero, però, di mantenere la loro storica sinergia e così, ingaggiati il chitarrista metal Mike McReady ed il batterista Dave Krusen, contattarono l’amico Jack Irons (Red Hot Chili Peppers) per avere il numero di quel benzinaio di San Diego, un po’ surfista e giocatore di basket con una gran voce. Il benzinaio che di nome faceva Eddie Vedder cantò alcuni suoi scritti su di un demo registrato da Gossard e soci precedentemente e, poi, lo rispedì a Seattle. Insomma, è chiaro che come in tutte le storie a lieto fine, Vedder diventò il quinto membro di una formazione che, però, non aveva ancora un nome. All’inizio si decise per Mookie Blaylock, in omaggio al forte cestista dei Nets  poi si arrivò al definitivo Pearl Jam a metà tra la dolce marmellata di nonna Pearl (nonna di Vedder) e gli stupefacenti alla frutta degli indiani d’America.

                             

Ed eccoci finalmente arrivati al debutto che più ci interessa. In quel ’91 l’universo del rock era stato percosso, sconvolto, cambiato dalla pubblicazione del colosso Nevermind dei Nirvana, uscito in Settembre. Tutto di lì in poi sarebbe stato etichettato come post-Nevermind e, certo, si poneva subito un inquietante quesito per i Pearl Jam: Ten (il numero di maglia di Blaylock), il loro debutto, sarebbe stato spazzato via dalla popolarità del successo dei Nirvana o ne avrebbe sfruttato la scia dorata? La storia racconta la seconda ipotesi: l’album d’eccellente bellezza divenne un cult grazie anche alla pista aperta da Kurt Cobain e co.

Fatto scivolare via lo strumentale di eco e distorsioni Master/Slave, Stone Gossard e Mike McCready inaugurano quel festival di chitarre che segna tutto l’album. Stone si occupa di tessere le trame melodiche e Mike si lascia andare agli assolo che sanno molto di anni ’70. Il primo

dato da registrare, certamente, è la compattezza di un gruppo nuovo di zecca,

 

ma spaventosamente affiatato. La cover-art mostra questa intesa: le braccia dei nostri unite verso il cielo a rappresentare una sorta di moschettieri del nuovo rock contemporaneo.

Dal punto di vista lirico, Vedder ci presenta due diverse strade narrative:

da un lato ci racconta delle disgrazie domestiche di un IO immaginario che, a dire la verità, assomiglia molto al suo profilo e alla sua biografia; dall’altro vengono sviluppati, tramite strane storie d’America, i temi sociali più contraddittori e malati. C’è un filo conduttore, dunque, che lega le tracce di questo disco generazionale, ed è la voce calda di Ed a condurci attraverso. Once  è il primo tassello della vicenda dell’IO immaginario; è il lamentoso urlo di rabbia di un uomo che ha ormai perso il senno: “un tempo sapevo controllarmi” strilla Eddie. La storia è raccontata grazie all’ausilio di immagini che si seguono a ritmo incalzante. L’uomo carica nella sua macchina una prostituta e s’intende che la farà fuori con un calibro 16 nascosta nei pantaloni. Perché, perché tutto questo? La canzone ci svela la soluzione quando fa cenno all’infanzia dell’uomo: la madre gli ha nascosto la morte del padre e quel dolore è stato troppo forte per controllarlo e per non permettere alla follia di impossessarsi di lui. La traccia numero 2, Even Flow, vede il nostro protagonista inchiodato su se stesso. La sua anima è ‘congelata’, affogata nella mediocrità e schiacciata dal tempo che lo divora vivo. Il pezzo è un esempio perfetto di piano e forte, dove ad un intermezzo di chitarre in attesa si apre il ritornello cantato a squarciagola da Ed. E’ memorabile lo strillo chitarristico di McCready sul ritmo indiavolato dei rulli di Krusen.

 

L’indimenticabile riff iniziale di Alive, poi, porta avanti la storia centrale. In realtà si fa un balzo indietro rispetto alla furia omicida del nostro protagonista in “Once”. Il ragazzo non ha ancora scoperto la morte del padre, ma la convivenza col patrigno e la confusione adolescenziale lo stanno strizzando. Solo una certezza gli è rimasta in questa strana vita: essere vivo. “I’m Still Alive”: si sgola, così Eddie, in un ritornello che resterà alla storia del rock targato ’90. Con Why Go e la danza al basso di Jeff Ament il disco devia sul secondo percorso lirico. L’attenzione si sposta sull’ennesima inquietante storia di lugubre quotidianità statunitense: una ragazza viene rinchiusa dai genitori in un ospedale psichiatrico perché sorpresa con dell’erba. Su questa scia si inserisce anche la celebre Jeremy (uno dei brani cult dei Pearl Jam) che ci parla del fatto di cronaca, molto noto negli States, di quel 8 Gennaio del 1991. Un giovane texano decise di spararsi in classe davanti ai suoi compagni e alla sua insegnante. Anche in questo caso Vedder s’affida ad una descrizione di tipo cinematografico: le fasi che precedono la tragedia sono costruite come fossero sequenze di una pellicola: “..a casa disegnando montagne con lui in cima(…) Re Jeremy il crudele dominava il suo mondo(…) il papà non dava affetto e il ragazzo era qualcosa di cui la madre non voleva occuparsi”, fino ad arrivare alla scena clou contenuta nel ritornello del brano: “Jeremy oggi ha parlato in classe”.

Il suicidio di Jeremy fa parte di un memorabile tris completato da Black e Oceans. Il dolcissimo arpeggio di chitarra e l’ululato di Vedder aprono forse in assoluto la più affascinante ballata della carriera dei Pearl Jam: “Black”. Si torna al filo conduttore e al nostro personaggio lasciato solo dalle disgrazie familiari; si fa cenno alla perdita di una donna e lo stile di scrittura è efficace, stimolante, criptico e colmo di immagini ed evocazioni: “fogli di tela bianca/ lenzuola di argilla erano stesi davanti a me/ come un tempo era il suo corpo”. La perdita di questo amore ha colorato tutto di ‘nero’; tutto ciò che lui vede: bambini in strada che giocano, che ridono, sono tagli al suo cuore anch’esso, sporcato e imbrattato di ‘nero’. Il brano conserva una bellezza unica. Il suo rock delicato, pulito, affascinante non può stancare mai, dove sentirlo più e più volte non ne scalfirebbe la grazia. “Oceans”, invece, ha un suono completamente diverso, se la si dovesse descrivere con un colore questo sarebbe il grigio o il blu scuro, ovvero le tonalità del mare della sera. Le chitarre minimali, la batteria solenne di Krusen e il canto evocativo di Vedder odorano di acqua e di quella emozione irripetibile che riesce a dare la vista dell’Oceano e la sua capacità di unire due amanti lontani grazie al suo suono profondo. Prima di arrivare all’ultimo capitolo della vita difficile del nostro protagonista, il disco ci riporta per un po’ dalle parti dell’america degli anni ’90: Porch parla dei senzatetto, Deep di diversità, strada, droga e prostituzione ed, infine Garden ci riassume un po’ il tutto definendo la società moderna come un “giardino di pietra”, ed i suoi abitanti fantasmi dall’”ombra affievolita” e dalle “mani legate”.

E siamo al finale: Release. Le chitarre solenni e l’andamento ascendente strizzano l’occhio ai Doors di “The End”. Il ragazzo ha scoperto la morte del padre e non è riuscito a perdonare la madre per l’atroce bugia. Ora ha bisogno di essere definitivamente liberato dal peso. Solo in un modo può cavalcare l’onda “fin dove lo condurrà”, e cioè con l’addio al padre, al suo ricordo, alla sua presenza. Un addio definitivo e, appunto, ‘liberatorio’. L’elemento autobiografico qui raggiunge l’apice, anche Vedder ha perso il padre quando era molto giovane e per anni è rimasto inchiodato ai quei ricordi. L’uscita di Ten ed il trionfo coi Pearl Jam rappresenta per lui quell’onda forte ed avvolgente da cavalcare verso il successo.

Master/Slave ritorna in coda e chiude l’album in una cornice circolare.

 

 

Nota:

Nella versione europea sono contenute 3 extra track:

“Alive” nella versione dal vivo,“Wash” e la funky “Dirty Frank” 

 

 

 

 

Riccardo Marra

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