Un Paese complesso, che i giornali raccontano solo in parte. Dimenticando, ad esempio, il ruolo del Partito Comunista, che sembra scomparso e invece è ancora il cuore del potere. Ne ha parlato il professor Stefano Cammelli in occasione dellannuale lezione Nino Recupero
Cina: il silenzio e larte di governare
La Cina, quell’immenso paese del quale negli ultimi anni si ricomincia a parlare e avere paura, è stata al centro della terza lezione intitolata al docente Nino Recupero, storico di origine catanese scomparso nel 2003 al quale l’Ateneo dedica ogni anno un’occasione per parlare di storia. A tenerla – in un’affollata aula dell’ex Monastero dei Benedettini – Stefano Cammelli, professore all’università di Bologna e autore di diversi libri e saggi.
Punto di partenza della conferenza è il viaggio che tre intellettuali italiani – Gian Carlo Pajetta, Sergio Cammelli (padre del docente) ed Enrica Collotti Pischel – intraprendono tra il 1958 e il 1965 verso la Cina del Grande balzo in avanti. Durante la loro permanenza conoscono una realtà distante tanto fisicamente quanto mentalmente, vengono a contatto con il duro regime di Mao Zedong e del partito Comunista ma non raccontano degli eccidi, di una tragedia paragonabile alla seconda guerra mondiale, di quella che si potrebbe definire a tutti gli effetti una dittatura sanguinaria. I tre, ciascuno con differenti orientamenti politici, sono invece colpiti dall’entusiasmo, dall’orgoglio e soprattutto dalla inusuale (almeno dal punto di vista europeo) capacità di autocritica dei vertici del partito Comunista.
«Il Partito non è democratica espressione del popolo – spiega Cammelli – ma piuttosto ne è appassionato e amoroso maestro. Non è il rappresentante del popolo, ma il professore, la guida da cui ci si attende che faccia il bene della classe anche se questa non lo sa, non se ne accorge, non è d’accordo. O anche se questo comporta, a volte, dure punizioni».
Ribaltando secondo questo punto di vista la prospettiva, massacri, requisizioni e violenze non sono imputabili alle crudeltà del regime, ma alla disobbedienza del popolo. «Chi aveva spiegato non aveva saputo farlo in modo più convincente, chi aveva guidato non aveva saputo farlo meglio, chi doveva convincersi non aveva voluto essere convinto. I disastri si erano compiuti, i morti c’erano stati: ma non erano colpa di nessuno. Anzi: erano colpa di tutti. Questa fu la straordinaria forza del potere di Mao e del Pcc, non in quanto comunisti, ma in quanto forma di governo in Cina».
I tre testimoni italiani erano quindi entrati in questa forma mentis, tanto da non ritenere opportuno o essenziale riportare testimonianze negative su quanto avevano visto. Quello che però il docente bolognese si chiede retoricamente e in maniera provocatoria è se sia accettabile fino a oggi ignorare una pagina di storia così terribile ma sostanzialmente sconosciuta e taciuta.
Un’altra questione che lo studioso pone è la “scomparsa” del partito cinese da reportage e inchieste che negli ultimi tempi hanno occupato palinsesti e librerie. «Nel momento in cui la Cina ha conquistato grande visibilità il Pcc sembra essere scomparso. Di lui si scrive poco e si sa ancor meno. Forse, si accenna, non esiste nemmeno più». In realtà, spiega Cammelli, la “scomparsa” del partito è stata voluta dal partito stesso, che dopo piazza Tienanmen ha scelto di «nascondersi, lavorare in silenzio e nel concreto», per ricostruire il suo «mandato morale a governare» mirando a una «graduale ricomposizione dei contrasti sociali, delle fratture, delle dissidenze e delle incomprensioni». Il silenzio sul partito, dunque, conferma paradossalmente la forza persistente dell’antica «arte di governare» cinese.
«L’impressione, non particolarmente rassicurante, è che l’Occidente – ancora una volta – sia succube di un partito che ha superiori capacità di analisi ed una camaleontica abilità a scomparire. L’impressione – continua Cammelli – è che la comprensione più completa della natura del potere cinese richieda una definizione più articolata e matura della sua natura morale e del millenario “mandato celeste”».
Secondo Cammelli, dunque, sarebbe ora di rimandare a casa quelle «legioni di esperti di economia che – come i comunisti degli anni ’60 – hanno veduto solo quello che è stato loro mostrato». Per riuscire a capire qualcosa di più di questa sfuggente realtà bisogna «riportare al centro della riflessione il dibattito politico, storico e filosofico arricchito dalla consapevolezza degli errori fatti dai comunisti negli anni ’60 e dagli economisti oggi. Non è una strada che ci spaventa: è l’antica, vecchia strada di casa. Ci aspettano due guide da cui abbiamo tuttora molto da imparare. Bentornati dunque messer Marco Polo e padre Matteo Ricci».