Che ne sarà di noi?

Nelle ultime settimane l’università italiana appare su giornali e tv come quel malato al cui capezzale dotti, medici e sapienti scrutano radiografie e referti per stabilire la diagnosi. Atenei senz’anima ha titolato “La Stampa”, ospitando un intervento del prof. Michele Ainis (università di Roma 3). Ma il sommario dà meglio l’idea: «sprechi, gigantismo, inefficienza, lassismo etico». Ancora più apocalittico un precedente articolo di cronaca, che auspicava l’immediata sospensione dei concorsi a professore già banditi mettendo alla gogna “baroni e baronetti”. «Si dovrebbe mettere fine – si leggeva nell’articolo –  anche alla parentopoli infinita che alligna nei nostri atenei, ai corsi di laurea pletorici frequentati da quattro gatti, alla finanza allegra che governa i bilanci di molti atenei, alla rete delle sedi universitarie piccole, costose e disseminate sotto ogni campanile».
Tutto una schifezza dunque? O la sindrome da “casta” colpisce ancora? Intanto, facciamo un passo indietro.

In principio fu il decreto Mussi. Nel novembre 2006 venne istituita l’Anvur (Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca). Tale ente aveva come scopo principale quello di vigilare sulla qualità del sistema universitario, per permettere poi la divisione dei fondi ministeriali non più attraverso un sistema “a pioggia”, ma subordinando l’attribuzione di una parte dei fondi alla valutazione positiva di un ente esterno accreditato. Nelle intenzioni dei consulenti dell’ex Ministro, questo meccanismo avrebbe sicuramente portato effetti positivi, senza che il Governo fosse costretto a intervenire direttamente sulla proliferazione di corsi di laurea, sedi decentrate e contratti a docenti pagati in maniera simbolica. Ateneo virtuoso? Più soldi. Ateneo spendaccione, inefficiente e dequalificato? Sul lastrico.

Questo piano “strategico” era stato affiancato a misure destinate ad avere effetti immediati sulla didattica: massimo venti esami per una laurea triennale, per porre rimedio all’eccessiva frammentazione dei corsi originata da una cattiva interpretazione e applicazione della riforma del 3+2. Già in precedenza (Moratti) erano stati varati i “requisiti minimi” che imponevano un numero minimo di docenti di ruolo per ciascun corso di laurea. Per obbedire a queste misure, fin dal prossimo anno, molti corsi di laurea saranno soppressi o accorpati e si applicherà il numero programmato.

Qualche tempo dopo i rettori di 13 atenei italiani (più altri sei) si incontrarono a Bologna e fondarono “Aquis” (Associazione per la qualità delle università italiane statali), un’associazione nata con lo scopo di riunire le università “più produttive”. Questa decisione provocò polemiche all’interno della Conferenza dei Rettori per la pretesa di auto-nominarsi università “di serie A”.

Siamo arrivati all’inizio dell’estate. Le università italiane sono affannosamente alle prese con l’adeguamento dei propri corsi ai requisiti minimi per accedere come al solito all’Ffo (Fondo per il finanziamento ordinario), il budget che il Ministero distribuisce a tutti gli atenei e la loro principale fonte di finanziamento (perché è bene ricordare che le tasse degli studenti non possono superare il 20% dei fondi complessivi).

Scatta all’improvviso il putsch di Ferragosto. Con il Decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (articoli 16 e 66), convertito nella Legge 6 agosto 2008, n. 133 approvata mentre studenti, docenti e personale amministrativo fanno castelli di sabbia alla Plaja e altrove i giochi sono fatti, senza tener nessun conto delle proteste della “controparte”.

I punti maggiormente contestati sono tre, ma le conseguenze che la legge approvata il 29 ottobre sono molteplici.Il primo, e più evidente, è il taglio da attuare sull’Ffo di 1441 milioni di euro (il 12,76% in meno nei prossimi tre anni).
Da notare come qualche articolo più sopra, nel quattordicesimo, vengano stanziati quasi un milione e mezzo di euro per l’Expo Milano 2015…

Il secondo punto che toglie il sonno a molti è il blocco del turn over al 20% dei pensionamenti. Per assumere un nuovo docente si dovrà aspettare che cinque vadano in pensione.
Il terzo è la possibilità che, per sottrarsi alla restrizione dei fondi, un’università scelga di trasformarsi in fondazione privata e sia di conseguenza libera di finanziarsi aumentando le tasse degli studenti. Ma i rettori sono stati finora unanimi contro questa ipotesi, sottolineando non solo il loro rifiuto di principio, ma soprattutto il carattere assolutamente non realistico della proposta del Governo.

Un’ultima complicazione è costituita dal fatto che tutti gli atenei si erano affrettati a bandire concorsi per l’avanzamento a professore associato e professore ordinario entro il 30 giugno, per approfittare dell’ultimo appuntamento con il meccanismo delle due idoneità (col quale si hanno maggiori probabilità di promuovere i candidati interni). Se questi concorsi si svolgeranno, dovranno entrare in servizio nei nuovi ruoli 3.556 “idonei”. E per poter smaltire queste immissioni in ruolo, dovrebbero andarne in pensione un bel numero entro tre anni (tempo entro il quale “scade” l’idoneità). 

A tutto ciò si aggiunge un piccolo “giallo” dell’ultima ora. Sarebbe pronto nei cassetti della Gelmini un decreto bis che dovrebbe obbligare (non più consigliare) la trasformazione delle università in fondazioni private ed abolire il valore legale della laurea, bloccando oltretutto i concorsi già banditi. 

Sembra tuttavia che sia tutto rinviato. Nella maggioranza affiorerebbero inviti al dialogo ispirati dalla preoccupazione di non versare nuovo combustibile altamente infiammabile sulla protesta. Ma, come al solito, s’è aperto immediatamente il balletto delle “rettifiche”. Il portavoce del presidente del Consiglio, Paolo Bonaiuti, s’è affrettato a dire che la Gelmini non rimanderà la “riforma” e che Berlusconi a calmare le acque non ci pensa nemmeno. Cosa succederà veramente? Nel corso di questa settimana lo sapremo.


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