Ormai lo sanno tutti che non basta comprare una maglietta composta in parte da poliestere riciclato per «fare del bene» al pianeta. Spesso, sono i sistemi produttivi alla base a rappresentare la più insistente minaccia nei confronti dell’ambiente, senza contare lo sfruttamento della forza lavoro con cui, il più delle volte, vengono realizzati prodotti che, apparentemente, rispettano l’ecosistema.
Retorica spicciola, non è così?
Eppure, questo tipo di consumismo, che potremmo definire “estetico”, si basa su questa. Per esempio, quante borse riusciamo a contare nell’armadio di un’influencer di moda che, contemporaneamente, promuove le nuove borracce plastic-free? E quante paia di scarpe? Forse, un anno non è composto da sufficienti giorni per poterle indossare tutte. Ma è necessario sfoggiare capi alla moda sempre diversi per potersi dire al passo coi tempi e avere successo in rete.
Il consumo estetico è, ormai, una vera e propria convenzione sociale che determina uno stile di vita, il più diffuso e il più invidiato. È chiaramente impossibile cessare immediatamente e in toto di acquistare. Le nostre abitudini affondano radici troppo profonde nel consumismo. Tuttavia, possiamo modificarle gradualmente, partendo dalle piccole cose, tipo:
1. smettere di seguire certi modelli sui social.
Se un’influencer torna a casa ogni due giorni con tre pacchi pieni di vestiti che le serviranno quasi sempre solo per scattare delle belle foto, non siamo tenuti a imitare il suo comportamento, né a ritenere che sia corretto. Oggettivamente, la stragrande maggioranza delle cose che compra – e che compriamo – specialmente di fast fashion, non ci serve realmente.
Basta aprire l’armadio e rispondere sinceramente alla domanda “che cosa uso realmente più spesso di tutti questi vestiti?” per comprenderlo.
In media, riducendo anche solo del 50% gli acquisti di vestiti e accessori, è possibile organizzare un weekend alle isole Eolie solo coi risparmi. In un hotel a quattro stelle. Inoltre, moltissimi dei capi prodotti in massa e in serie in poco tempo perdono il valore di mercato. Si pensi al divampante fenomeno Vinted: quasi tutti gli utenti non riescono a vendere i propri “scarti” di fast fashion a più di cinque euro. Impensabile vendere a un prezzo a due cifre. Questo a riprova del fatto che noi in primis, se dovessimo comprare di seconda mano gli stessi vestiti, non saremmo mai disposti a spendere più di tanto, perché ci appaiono scadenti e di pessima qualità. E spesso lo sono davvero.
2. Comprare e vendere vintage e second hand.
Comprare usato va sempre più di moda e non è un caso. Non solo per la migliore qualità di certi articoli del passato, ma anche perché il concetto di ciò che è cool muta nel tempo, ma è destinato a ripetersi! Come la storia, anche la moda è ciclica, pertanto non è sorprendente assistere al ritorno delle bandane, dei jeans a vita bassa o degli occhiali rettangolari, indiscreti sostituti degli ormai superati cerchietti bombati, dei jeans mom e degli occhiali a gatta. In questa prospettiva, l’usato potrebbe diventare la nuova moda, anche per quell’influencer che per anni ha promosso il consumo come stile di vita, a scapito delle conseguenze.
3. Preferire un capo sartoriale alla produzione seriale.
Non dissimile dal concetto di vintage, quello di handmade punta a un commercio più sostenibile e di qualità. Un capo realizzato con prodotti di un certo pregio sarà destinato a durare nel tempo e a conservare il suo valore commerciale. In questo modo, non sarà necessario comprare ogni anno il cappotto per l’inverno, per intenderci, perché un cappotto ben realizzato, anche se costa di più, rappresenta un piccolo investimento nel lungo termine (sì, mia madre ha cappotti sartoriali nel suo armadio che risalgono al 1995 e sono perfetti!).
Handmade e vintage, in questo senso, sono due facce della stessa medaglia.
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