Stregato dai videogame

I videogiochi raccontano storie, e che possono a loro volta suscitare ed influenzare altre narrazioni. Qualche esempio. Uno dei romanzi più attesi del 2006 è iPod di Douglas Coupland, che uscirà a maggio per Random House. Dovrebbe costituire il seguito ideale di Microservi e ha per protagonisti sei programmatori di videogiochi. Pochi mesi fa è stato tradotto e pubblicato (da Meridiano Zero) Real Life di Christopher Brookmyre, dove un videogiocatore si trova a duellare nella vita reale con un vecchio amico divenuto terrorista. Sta per uscire il film da un libro appena arrivato in Italia, Master of Doom (edizioni Multiplayer. it) di David Kushner. In Italia si annoverano Alessandra C. con Skille, e di recente, Guglielmo Pispisa con Città perfetta. Niccolò Ammaniti è l’unico scrittore italiano ad aver seguito le orme di Clive Barker e Neil Gaiman e ad aver sceneggiato quel che doveva essere un videogioco (poi è diventato un corto digitale, con zombie), Gone Bad.

Il primo videogioco?
“Il vecchio Pong, quello che si giocava ancora sullo schermo della televisione ed era semplicissimo, dovevi soltanto colpire due sbarre con la pallina. Infatti non mi colpì molto, come tutti i giochi esclusivamente tecnici. Tutto è cambiato con la Playstation: quando ho visto che esisteva la possibilità di una narrazione ho cominciato a guardare i videogiochi con altro occhio. Forse il primo che mi sia veramente piaciuto è stato il classico Tomb Rider”.

Che tipo di narrazione? O meglio: quali differenze narrative
esistono nel mondo del videogame?

“Esiste ancora una grande differenziazione fra videogiochi narrativi e videogiochi fondamentalmente tecnici: quelli, cioè,dove devi ammazzare il maggior numero di nemici possibile, superare prove, arrivare in fondo e in assoluto percorrere una strada maestra dalla quale non puoi uscire per curiosare. Da qualche anno a questa parte, invece, esistono giochi dove puoi fare cose che non servono: dove può intervenire anche la noia, dove si può visitare il mondo senza le necessità di acquisire punteggio. Ricordo un gioco dove dovevi trovare un killer che aveva ucciso una bambina: e per farlo dovevi fare domande a personaggi che potevi incontrare, forse, entrando nelle case o camminando. La cosa interessante è che se aspettavi un autobus passavano davvero cinque minuti, reali, prima del suo arrivo. O che potevi anche giocare con le macchinette, o addirittura con altri videogiochi dentro una sala posizionata dentro il gioco. Nulla di tutto questo serviva, ma era ugualmente importante. Il punto di forza, cioè, non era tanto nella struttura narrativa, ma nelle ambientazioni. In giochi come Resident Evil la storia non è così significativa: l’interesse viene dall’atmosfera di paura, dalle situazioni, dai luoghi. Anche nei libri
l’ambientazione, la costruzione del panorama sono, secondo
me, alla base della storia”.

Nella narrativa si infrangono spesso, e fortunatamente, le regole: accade anche nei videogiochi? E quanti si propongono come innovativi da questo punto di vista?
“È difficile fare un consuntivo: in un anno i libri che ti sono piaciuti si possono contare su una mano, la stessa cosa vale per i film, molto più per i videogiochi. Non puoi provarli tutti perché costano molto e spesso la dinamica è la stessa: entra nel castello, trova il dirupo, ammazza il cattivo, vai in fondo al livello. Nel videogioco tradizionale pochi hanno cambiato veramente le regole. Qualcosa di interessante c’era in Grand Theft Auto, dove devi rubare automobili per crescere nel mondo della malavita: non solo ci sono sollecitazioni enormi (devi imparare a memoria-come nella tua città – le strade dove puoi andare, per esempio), ma, man mano che continui a fare esperienza, il mondo si allarga e diminuiscono le aree grigie dove non puoi entrare. Con quel
gioco mi è capitata una cosa fantastica: non riuscivo a finire una prova, e dunque non riuscivo a sbloccare la metà di un mondo che era divisa da un fiume. Con la macchina non potevo passare, perché era tutto sbarrato, e mi son detto: ci vado a nuoto. Ho abbandonato la macchina e mi sono buttato in questo canale gigantesco: ci ho messo venti minuti ad arrivare dall’altra parte nuotando. Infine, sono entrato in una zona proibita. Ora, nei videogiochi tradizionali in questi casi non passi proprio: improvvisamente c’è un muro trasparente, o qualcosa che ti impedisce di proseguire. In quel caso sono potuto passare. Ma subito ho avuto addosso non solo tutta la polizia del mondo che mi ha accerchiato, ma addirittura personaggi “normali”, quelli che abitualmente in questo gioco ti aiutano, cioè gli altri malavitosi con cui esiste un rapporto, un codice di alleanza. Qui no: qui avevo rotto il codice. Allora ho ripreso la macchina e sono entrato in una zona dove abitualmente “ti ripulisci”, cambi il colore dell’automobile ed esci senza essere più ricercato. Bene: quelli che dovevano aiutarmi mi hanno detto: no, sei troppo pericoloso. Ero fuori dal sistema”.

Esiste un punto di svolta dei videogiochi, una rivoluzione
linguistica?

“Sì. Il gioco on line, dove posso interagire con altri personaggi che incontro, e dunque con altri giocatori come me, che siedono contemporaneamente davanti ad un computer, magari dall’altra parte del pianeta.. Il passaggio fondamentale è stato con World of WarCraft, dove entri in un mondo da cui è difficile uscire. Perché c’è un aspetto ludico fondamentale: il tuo personaggio deve crescere, deve diventare importante, dunque devi entrare all’interno di una gilda dove ci sono altri da cui ricevi piccoli aiuti, e cresci, impari, combatti, fai le quest, che sono compiti cui devi assolvere per guadagnare soldi ed esperienza. E soprattutto ci sono persone come te che giocano: così nascono grandi amicizie, andate insieme a scoprire mondi praticamente infiniti che attraversi con tempi lunghissimi, per andare da una parte all’altra puoi impiegarci quindici minuti. Io non riesco a trattarlo come un gioco: sai che devi stare attento a quello che dici
perché l’altro si può offendere, cominciano a piacerti i personaggi. Per esempio, mi piaceva tantissimo un’elfa bellissima: ma non ho mai capito se fosse in realtà davvero una donna, e non avevo il coraggio di chiederglielo. Giocare on line non è come le chat, dove entri e parli di te. Qui hai da fare, ed è difficile staccarsi”.

Poi cosa è successo?
“Ho dovuto giurare che finché non finivo il libro smettevo: avevo capito che stavo diventando veramente dipendente, al punto che mi svegliavo la mattina e pensavo nei termini dell’altro mondo, era come se sloggiassi dal gioco per poter vivere qualche ora nella vita normale per poi tornare al mondo reale, quello del videogioco… A un certo punto anche nei sogni mi sognavo vedendomi di schiena, come sul monitor. Come se il gioco stesso fosse un programma che ti riempie tutto l’hard disk e ti lascia uno spazio microscopico per poter vivere. Un po’ inquietante: specie se mi fosse successo in quel periodo della
mia vita in cui ho sentito la necessità di scrivere per raccontare storie che avvenivano in un altro mondo e non mi appartenevano. Scrivendo, era come se aprissi la porta e in un certo senso facessi un videogioco: ma era un romanzo. Se avessi cominciato prima con World of WarCraft, probabilmentenon avrei fatto lo scrittore, mi sarebbe stato sufficiente giocare per potermi creare un mondo diverso da quello in cui vivevo”.

E qualcosa di simile al gioco collettivo non potrebbe ripetersi in
letteratura: non si sta, anzi, ripetendo?
“In parte sì. Ho anche partecipato ad un libro, una global novel, Il mio è nome nessuno, dove ci siamo dati la staffetta in diversi. È stato divertente. Ma c’è una differenza: nel videogioco tutti credono in quel che stanno facendo, si entra in un mondo costruito da altri ma con degli obiettivi condivisi. Che è difficile ottenere in letteratura, dove ognuno, infine, fa la propria strada rinunciando a costruire insieme un universo fantastico. Magari, anche giustamente”.


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