Continua la sfilata di testi chiamati dall’accusa. Oggi è di nuovo il turno del dirigente Mosca, che ripercorre i passaggi fondamentali dell’indagine Glauco II. Mentre a sorpresa il pm Ferrara deposita nuove intercettazioni e chat a carico dell’uomo accusato di essere il boss della tratta di uomini
Caso Mered, processo in trasferta all’Ucciardone Procura chiede modifica del capo d’imputazione
«Oggi la Corte ha una nuova definitiva composizione». Prende il via con questa frase pronunciata dal presidente della seconda Corte d’Assise Alfredo Montalto, l’udienza del processo a carico del presunto boss della tratta di esseri umani Medhanie Yehdego Mered, eccezionalmente celebrata all’aula bunker dell’Ucciardone. Presente, come sempre, anche l’uomo da oltre un anno ormai detenuto al Pagliarelli e che continua a dichiararsi vittima di uno scambio di persona nonchè di essere in realtà un rifugiato in procinto di imbarcarsi di nome Medhanie Tesfamariam Behre. La prima mezzora vola via così, tra l’annuncio del nuovo componente della giuria, la giudice a latere Giulia Malaponte, e l’acquisizione dei verbali relativi alle prove già acquisite in precedenza.
Dopo la nomina anche del perito che trascriverà le intercettazioni ammesse al dibattimento, una giovane donna eritrea da nove anni residente ad Agrigento, la parola va alla Procura, che chiede la modifica dei capi d’imputazione, contestando al presunto boss Mered un’ulteriore associazione a delinquere, depositando altre intercettazioni e chat. Rimane ancora, invece, la riserva rispetto ai risultati del test del Dna, eseguito dal tecnico della difesa Gregorio Seidita, che proverebbero che l’imputato è figlio dell’eritrea Meaza Zerai Weldai e sui quali la pronuncia potrebbe arrivare durante l’udienza di domani.
Si prosegue quindi con l’esame, ancora una volta, di Carmine Mosca, all’epoca delle indagini vice dirigente della Mobile di Palermo, già sentito il 20 giugno scorso di fronte al giudice Bruno Fasciana. Ed è una testimonianza speculare a quella già resa nei mesi scorsi, quella ascoltata oggi. Salvo per qualche dettaglio e precisazione dell’ultima ora. In particolare sulla foto attribuita a Mered. «Da dove viene e perché gliela attribuite?», domanda il pm Geri Ferrara. «Ci siamo avvalsi dei social network, non potendo indagare in maniera classica – anticipa Mosca -. Tiriamo fuori quell’immagine da un contatto in comune nel profilo di Lidya Tesfu, moglie di Mered. La donna che a settembre 2014 partorisce il loro figlio, registrato col cognome Medhanie Yehdego e dichiarato figlio di Mered, ma non ci sono documenti del padre. Dal primo profilo si tirò fuori questa fotografia che ritenemmo essere quella del ricercato, cosa che non fu mai riscontrata da un punto di vista ufficiale, cioè non fu acquisita un’identità anagrafica».
Smorzata, a distanza di mesi, anche la ricostruzione del momento dell’arresto in Sudan e dell’estradizioni in Italia, operazione alla quale Mosca prende parte. E se a giugno a colpire di più era stata la sua ammissione di avere avuto delle «perplessità», vedendo arrivare l’attuale imputato, fisicamente diverso e più giovane dell’uomo immortalato nella foto estratta da Facebook, oggi di questi dubbi non sembra esserci traccia. «Durante l’attesa in aeroporto, durata ore, il generale della polizia sudanese raccontò l’operazione con cui il boss era stato individuato e arrestato – spiega -. Questo soggetto si vantava pubblicamente di essere ricercato dalla polizia di mezzo mondo e ostentava una certa ricchezza. Cosa che abbiamo appurato sulla base di alcune foto rinvenute nel cellulare che aveva addosso al momento dell’arresto, che lo ritraggono ben vestito a una festa di matrimonio».
Serrato il controesame dell’avvocato difensore Michele Calantropo, che in alcuni tratti sembra mettere in difficoltà il testimone, che risponde stizzito. Si toccano tutti i punti toccati durante l’esame dell’accusa: dalle telefonate intercettate alle traduzioni degli interpreti, dalle celle telefoniche agganciate all’instradamento. E poi il punto cruciale, il cuore in un certo senso dell’intero processo: capire se la persona detenuta da oltre un anno con l’accusa di essere uno dei trafficanti di uomini più pericolosi del mondo sia davvero Mered oppure no. L’avvocato Calantropo cita al teste la testimonianza di Merhawi, fratello del boss, sentito dagli inquirenti olandesi il 29 settembre 2015, circostanza nella quale riconosce come Mered il soggetto ritratto nell’ormai celebre fotografia. «Ritenemmo che potesse mentire evidentemente per coprire il vero fratello, ecco quale fu il ragionamento, malgrado Mered fosse ancora ricercato». Il resto sono una serie di «non lo so» o «non ricordo».